Le funzioni cognitive. Capitolo 1 Come si modifica il cervello? Dal neurone alla neuroplasticità.

Le funzioni cognitive. Capitolo 1 Come si modifica il cervello? Dal neurone alla neuroplasticità.

Le funzioni cognitive. Capitolo 1

Come si modifica il cervello? Dal neurone alla neuroplasticità

Nei nostri articoli spesso abbiamo nominato il concetto di neuroplasticità, o plasticità cerebrale. Essa è la base di alcuni trattamenti come la stimolazione cognitiva, ed è quell’abilità che rende possibile al nostro cervello di modificarsi in base all’ambiente e all’esperienza.

Per comprendere meglio come funziona questo meccanismo, però, è necessario partire da più indietro, conoscendo le cellule che compongono il nostro cervello.

 

 

Il neurone

 

Iniziamo quindi a raccontarvi del protagonista delle attività svolte dal cervello, il neurone.

Una delle caratteristiche di queste cellule è la forma ad albero, data dalla presenza di due prolungamenti alle estremità: da un parte si trova l’assone (che sembra il tronco!) e dall’altra i dendriti, che potrebbero rappresentare dei rami.

La particolare conformazione dei nostri neuroni è importantissima per la trasmissione delle informazioni: il polo dendritico (i rami) riceve le informazioni, che vengono poi elaborate e infine il polo assonico (il tronco) contribuisce a inviarle ad altri neuroni, anche a grande distanza nel cervello.

Ma è così semplice la trasmissione delle informazioni tra i neuroni?

 

 

Le sinapsi

 

Il termine “sinapsi” indica il contatto tra due neuroni, mentre il termine “conduzione” è usato per indicare i processi relativi alla trasmissione dei segnali.

La sinapsi è, di fatto, uno spazio di condivisione chimica tra due neuroni.

Nella porzione pre-sinaptica (che si trova nel polo dendritico del neurone che invia) vengono sintetizzati i neurotrasmettitori, ossia le molecole che fungono da messaggeri.

I neurotrasmettitori vengono poi inglobati nelle vescicole, che si accumulano vicino alla membrana pre-sinaptica in attesa del segnale che ne ordini la liberazione.

Una volta rilasciate nello spazio sinaptico, le molecole di neurotrasmettitore di legano ai recettori presenti nello spazio post-sinaptico (che si trova nel polo assonico), attivando il neurone che riceve il messaggio.

Una volta consegnato il messaggio, però, è necessario togliere il neurotrasmettitore dallo spazio sinaptico. Sono quindi presenti degli enzimi che lo distruggono ed esistono dei processi di ricaptazione grazie al quale la sostanza viene reintrodotta nella porzione pre-sinaptica.

I processi di cui abbiamo appena parlato, oltre ad avvenire naturalmente nel nostro cervello ed essere la fonte dell’elaborazione delle informazioni, possono essere indotti per esempio attraverso dei farmaci.

Per esempio, questo è il modo in cui funzionano i famosi antidepressivi della classe degli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina, o SSRI. Questi farmaci agiscono appunto inibendo il processo di ricaptazione della serotonina, lasciandone maggiori quantità in circolazione nello spazio sinaptico.

 

 

La plasticità cerebrale

In alcuni degli articoli pubblicati sul nostro blog, abbiamo nominato il concetto di neuroplasticità, ossia della utilissima capacità del nostro cervello di modificarsi per adattarsi all’ambiente circostante e all’esperienza.

La neuroplasticità è l’abilità del nostro cervello che permette al cervello di stabilire connessioni sinaptiche specifiche, oltrepassando la predisposizione genetica del sistema nervoso e sfruttando il modo in cui i neuroni vengono utilizzati durante il corso della vita.

A seconda delle occasioni, il cervello reagisce con diversi tipi di plasticità. In particolare:

  • Neurogenesi: prevale durante lo sviluppo e comprende la formazione dei neuroni, delle loro terminazioni e delle connessioni sinaptiche
  • Plasticità dipendente dall’esperienza: determina soprattutto cambiamenti nelle connessioni tra neuroni (per esempio grazie all’apprendimento e alla memoria!)
  • Plasticità reattiva: in seguito a un danno ai tessuti cerebrali, i neuroni si riorganizzano per compensare la funzione perduta
  • Plasticità patologica: si ha quando ci sono degli stimoli lesivi o quando sono assenti quei fattori che promuovono la plasticità stessa.

Ovviamente queste categorie non sono rigide e molto spesso si sovrappongono, ma è interessante imparare in quanti modi cambia il nostro cervello!

 

Quanto dura la neuroplasticità?

 

La caratteristica meravigliosa del nostro cervello è che esso è plastico per tutta la vita. Fino a qualche anno fa, si pensava che una dopo i primi anni di vita non si possedesse più la capacità di generare nuovi neuroni.

I ricercatori dell’Università dell’Illinois, invece, hanno scoperto che la neruogenesi, cioè la nascita di nuovi neuroni, si verifica anche in età avanzata, anche se in maniera ridotta rispetto a un cervello giovane.

Questo vale anche per le persone affette da Alzheimer o che stanno andando incontro a deterioramento cognitivo, sebbene la neruogenesi si verifichi in maniera ridotta.

A livello terapeutico significa che se si trovasse il modo di incrementare la neurogenesi potrebbe essere possibile rallentare o addirittura prevenire il deterioramento cognitivo!

 

 

Bibliografia

National Geographic (2019). La Plasticità Cerebrale. Siamo Architetti del nostro cervello? RBA Italia, Milano

Gazzaniga, M. S., Ivry, R. B., Mangun, G. R., Zani, A., & Proverbio, A. M. (2015). Neuroscienze cognitive. Zanichelli.

Bear, M. F., Connors, B. W., Paradiso, M. A., Casco, C., Petrosini, L., & Oliveri, M. (2007). Neuroscienze: esplorando il cervello. Masson.

Tobin, M. K., Musaraca, K., Disouky, A., Shetti, A., Bheri, A., Honer, W. G., … & Lazarov, O. (2019). Human Hippocampal Neurogenesis Persists in Aged Adults and Alzheimer’s Disease Patients. Cell stem cell24(6), 974-982.

Le funzioni cognitive. Capitolo 2 – L’attenzione

Le funzioni cognitive. Capitolo 2 – L’attenzione

Le funzioni cognitive. Capitolo 2 – L’attenzione

L’attenzione è definibile come un insieme di fenomeni cognitivi che ci permettono di selezionare e filtrare le informazioni proveniente dall’ambiente in modo automatico (bottom-up) o volontario (top-down).

Ecco alcune componenti attentive:

  • Attenzione selettiva: selezionare un preciso stimolo a discapito di altri
  • Attenzione sostenuta o concentrazione: mantenere l’attenzione su un compito per un periodo prolungato di tempo
  • Inibizione: ignorare uno stimolo irrilevante
  • Attenzione divisa: distribuire le proprie capacità attentive tra due compiti da svolgersi contemporaneamente
  • Attenzione alternata: seguire due compiti diversi, spostando l’attenzione da uno all’altro

Fenomeni attentivi

Nella storia della psicologia sono stati molti gli esperimenti condotti per comprendere come funzionano le abilità cognitive. Anche se ancora al giorno d’oggi rimangono molti punti oscuri, tali ricerche ci hanno consentito di capire come lavora il nostro cervello, mettendo alla luce anche alcuni fenomeni curiosi.

Il fenomeno dell’attenzione nascosta, scoperto da Hermann von Helmotz nel 1894, aiuta a comprendere come il punto del campo visivo su cui si fissa lo sguardo non è necessariamente lo stesso in cui si focalizza l’attenzione.

È quindi possibile decidere volontariamente di concentrare l’attenzione su una sensazione proveniente dal sistema nervoso periferico e allo stesso tempo escludere l’attenzione da tutte le altre parti. Per esempio, quando guidiamo abbiamo lo sguardo fisso sulla strada davanti a noi, ma la nostra attenzione è attiva anche al marciapiede, per evitare eventuali investimenti di pedoni che attraversano all’improvviso.

Un altro fenomeno curioso per aiutarci a capire come funziona l’attenzione è l’effetto definito “cocktail party”; questa volta protagonista è l’attenzione uditiva, che non necessariamente è indirizzata verso i suoni più forti.

La percezione selettiva uditiva premette la percezione di un debole segnale in un ambiente rumoroso (per esempio una festa, dove ci sono vari rumori forti come la musica, il rumore delle posate, ecc., ma noi riusciamo a concentrare la nostra attenzione sulla persona che ci stai parlando). Questo effetto è stato scoperto attraverso esperimento condotti con il metodo dell’ascolto dicotico. Tale tecnica consiste nel far indossare ai soggetti delle cuffie, trasmettendo a ognuno degli orecchi un messaggio differente. É stato così osservato come la focalizzazione dell’attenzione su un solo orecchio migliora la codifica di quell’input. Il messaggio trasmesso nell’orecchio ignorato viene notato solo se contiene informazioni rilevanti per il soggetto.

Quali sono le basi neurali dell’attenzione?

Come per quasi tutte le funzioni cognitive, si ritiene che non ci sia una singola area cerebrale specifica per l’attenzione, ma che tale abilità sia mediata dall’attivazione di vari network. In particolare, a seconda del sistema sensoriale cui lo stimolo appartiene (visivo, uditivo, tattile), si attivano le relative aree. La corteccia frontale opera un controllo esecutivo e il lobo parietale interviene per quanto riguarda il controllo spaziale e la localizzazione.

Multitasking e risorse attentive

Molto spesso si sente dire alle persone di essere “multitasking“, ossia di essere molto abili nello svolgere più compiti nello stesso momento. Tale termine indica, in particolare, la capacità di elaborare in parallelo il maggior numero di informazioni possibili, portando a termine il compito velocemente e precisamente.

Ormai, nella nostra quotidianità, è sempre più difficoltoso concentrarsi su un’attività senza subire distrazioni da telefonate, messaggi, mail, notifiche e via dicendo.

Ma tutte queste interferenze, ci rendono più abili, potenziando le nostre risorse attentive, oppure conducono a uno spreco di risorse?

Per rispondere a questa domanda, è in primo luogo necessario osservare che l’attenzione è una risorsa cognitiva limitata: nel momento in cui dirigiamo l’attenzione a un compito secondario, quello principale che stavamo compiendo ne risente. Inoltre, è chiaro che alternare il focus attentivo tra un’attività e l’altra rallenta notevolmente i tempi di reazione e di elaborazione delle informazioni. Inoltre, anche la memoria a lungo termine è influenzata in negativo dallo switching attentivo, rendendo i ricordi più specializzati, meno flessibili e quindi recuperabili con maggiori difficoltà.

A nostro avviso, la soluzione migliore consiste, piuttosto che nel condurre più attività contemporaneamente, nel gerarchizzare le priorità. Porsi un obiettivo per volta e cecare di portarlo a termine, evitando le distrazioni quali interruzioni del lavoro, consentirebbe una migliore concentrazione su quel compito, probabilmente conducendo a un migliore risultato finale

 

Le funzioni cognitive. Capitolo 3  Il linguaggio

Le funzioni cognitive. Capitolo 3 Il linguaggio

Le funzioni cognitive. Capitolo 3  Il linguaggio

 

Se in molte specie animali è presente una qualche forma di comunicazione, al fine di condividere messaggi utili ai bisogni primari, il linguaggio umano è una facoltà che va oltre questo scopo puramente evolutivo.

Secondo Merleau-Ponty (1945) il linguaggio è quell’abilità che ci permette di strutturare l’esperienza (e di raccontarla ad altri!); le parole, i suoni e i fonemi rappresentano gli oggetti in quanto ne esprimono l’essenza emozionale. La psicoterapia, terapia mediata linguisticamente, è tanto efficace quanto i farmaci nel trattamento di alcune patologie anche perché opera dei cambiamenti a livello cerebrale, mediati proprio dal linguaggio.

A livello puramente cognitivo, il linguaggio è definibile come una facoltà che utilizza un sistema si simboli vocali e grafici per permettere all’essere umano di esprimersi, comunicare opinioni, sentimenti, emozioni. Esso può essere orale o scritto e nel nostro cervello l’elaborazione di questi due tipi di stimoli segue due strade differenti.

La parola pronunciata, infatti, viene sottoposta a una prima analisi uditiva, si codifica l’input fonologico, che attiva nel nostro cervello la forma uditiva della parola nel lessico mentale, per poi arrivare al concetto. La parola scritta, invece, subisce in primo luogo un’analisi visiva, in cui viene codificato l’input ortografico. A questo punto, però, da una parte si attiva la forma visiva nella parola, che conduce alla fase della selezione lessicale, ma contemporaneamente lo stimolo ortografico rimanda all’elaborazione di tipo fonologico.

Il lessico mentale

In entrambi i casi, prima di poter “arrivare” al concetto, è chiaro che si debba passare dalla selezione della parola nel “lessico mentale”. Ma in che cosa consiste? Effettivamente, quasi tutte le teorie del linguaggio, seppur disparate, ne postulano l’esistenza. Sembrerebbe che il lessico mentale sia una specie di “magazzino” che contiene tutte le informazioni semantiche, sintattiche e relative alla forma delle parole.

Il contenuto di tale magazzino non è fisso, e l’accesso è più veloce per le parole che utilizziamo maggiormente nella quotidianità (ecco da dove deriva l’utilità degli esercizi di fluenza verbale). Inoltre, sembra che vi sia un “effetto di vicinanza” per le parole che si assomigliano dal punto di vista acustico, che determinerebbe una maggior velocità dei tempi di reazione a parole che condividono caratteristiche acustiche.

Dove si trova il linguaggio nel nostro cervello?

Lo studio dei correlati neurali del linguaggio è strettamente legato ai nomi di due studiosi: Paul Broca e Karl Wernicke. Essi infatti, studiando i cervelli di pazienti affetti da disturbi del linguaggio, scoprirono per primi due aree fondamentali per l’elaborazione del linguaggio e che sono tutt’oggi chiamate con i loro nomi.

Broca osservò nel cosiddetto Monsieur Tan come una lesione dell’area situata nell’emisfero frontale sinistro, sopra il solco di Silvio (aree di Broadmann 44-45) rendeva il soggetto incapace di produrre alcuna parola a eccezione della sillaba “tan” (da cui deriva il soprannome del paziente).

Wernicke, invece, qualche anno dopo, studiò dei pazienti in cui una lesione specifica della parte posteriore dell’area di Broadmann 22, situata nel lobo superiore dell’emisfero sinistro, produceva un’incapacità di comprendere quanto veniva loro detto, anche a fronte di una corretta articolazione delle parole (seppur spesso messe insieme in modo poso sensato).

Per parecchio tempo si è pensato che le aree di Broca e di Wernicke fossero le uniche deputate all’elaborazione del linguaggio, ma dalla metà del ‘900 in poi si è scoperto che questa capacità cognitiva dipende da un network molto più ampio, connesso con altre aree corticali e sottocorticali che si occupano di altre abilità quali l’udito, la motricità, l’attenzione, la vista, ecc.

Come si apprende il linguaggio?

Che il linguaggio sia una capacità che accomuna gli esseri umani di tutto il mondo e di tutte le culture è innegabile, ma come si apprende questa spettacolare abilità?

Tra gli studiosi che nel corso del tempo hanno provato a spiegarlo, ricordiamo  Bruner, Piaget, Vygotsky, Chomsky e Skinner.

Secondo il comportamenetista Burrhus Frederic Skinner, il linguaggio è un comportamento verbale, il cui processo di acquisizione  è paragonabile a tutti gli altri tipi di comportamenti umani e animali. Secondo Skinner, il bambino alla nascita sarebbe una tabula rasa, e la percezione degli stimoli e dei rinforzi linguistici appropriati dall’ambiente gli consentirebbe l’apprendimento del linguaggio. Il rinforzo linguistico dell’adulto, quindi, plasmerebbe le espressioni inizialmente scorrette del bambino.

Nettamente contrapposta è invece la visione di Noam Chomsky, linguista statunitense famoso per la sua Teoria della Grammatica Universale, secondo cui il linguaggio sarebbe una facoltà innata dell’essere umano. Egli postulò l’esistenza di un dispositivo innato che permette l’acquisizione del linguaggio e la presenza di una grammatica universale, cioè un bagaglio di conoscenze innate finalizzate al linguaggio che ci servono per rintracciare la struttura delle frasi che sentiamo. Tale bagaglio serve per imparare una QUALSIASI lingua, quindi deve essere innato. A sostegno della sua ipotesi, Chomsky osservò l’incredibile rapidità e uniformità osservabili nei bambini durante l’apprendimento del linguaggio.

Come allenare il linguaggio?

Alcune abilità cognitive, come la velocità di elaborazione e la memoria, durante l’invecchiamento tendono a ridurre la loro efficacia. A differenza di esse, il linguaggio è una delle capacità che si basa maggiormente sull’esperienza, ed è facilmente immaginabile come il vocabolario di un individuo cresca man mano che si va avanti con gli anni.

Purtroppo però, non è sufficiente “possedere” molte parole nel proprio lessico mentale (lessico passivo), in quanto man mano che si riducono i contesti di conversazione attiva, si tenderà a utilizzare sempre meno parole (lessico attivo).

Un consiglio sempre valido per tenere allenato il linguaggio, come del resto tutte le altre componenti cognitive, è quello di frequentare il più possibile contesti sociali nei quali parlare con altre persone, scambiarsi opinioni su quello che succede nel mondo, nella città, nel quartiere. Utile anche cercare di essere il più precisi possibile nel nominare gli oggetti, cercando di evitare l’utilizzo delle cosiddette “parole pass-par-tout”, cioè quei vocaboli generali (“cosa”, “coso”, “roba”, ecc.) in sostituzione dei nomi specifici degli oggetti.

Altri esercizi specifici che si possono attuare, come ricordato sopra, sono esercizi di fluenza verbale fonemica (ossia produzione di tutte le parole che ci vengono in mente che iniziano con una data lettera), di fluenza verbale semantica (trovare tutte le parole che ci vengono in mente appartenenti a una data categoria), o mischiare entrambi gli esercizi, magari giocando con i propri nipoti al famoso “Nomi, Cose, Città…”.

 

Bibliografia

Dentici, O. A., Amoretti, G., & Cavallini, E. (2004). La memoria degli anziani. Una guida per mantenerla in efficienza. Edizioni Erickson.

Gazzaniga, M. S., Ivry, R. B., Mangun, G. R., Zani, A., & Proverbio, A. M. (2015). Neuroscienze cognitive. Zanichelli.

Merleau-Ponty, M. (1945). Fenomenologia della percezione. Giunti.

Le funzioni cognitive. Capitolo 4  La creatività

Le funzioni cognitive. Capitolo 4 La creatività

Le funzioni cognitive. Capitolo 4 La creatività

Che cos’è la creatività?

La creatività è definibile in neuropsicologia come la “produzione di efficaci novità“. In questa definizione emergono immediatamente due aspetti: la novità e l’utilità. Essa richiede l’apporto di altre funzioni cognitive quali la memoria di lavoro, l’attenzione sostenuta, la flessibilità cognitiva e l’abilità di giudizio.

Sembrerebbe però che esista più di un tipo di creatività. Nello specifico, incrociando due domini di conoscenza (emotivo e cognitivo) e due modalità di elaborazione delle informazioni (volontario e spontaneo), si avrebbero come risultato quattro tipi di creatività:

  1. Emotiva volontaria
  2. Emotiva spontanea
  3. Cognitiva volontaria
  4. Cognitiva spontanea

Da dove nasce un’idea?

Nel corso dei secoli, con il susseguirsi di varie scuole di pensiero, la nascita di nuove idee è stata attribuita a Dio, alla ragione, all’intuizione. Al giorno d’oggi, si crede che la risposta sia da ricercare nella natura dell’esperienza e della cultura.

Verosimilmente la creatività nasce dall’intersezione tra elementi cognitivi (pensiero e ragionamento) e non-cognitivi (intuizione ed emozioni).

Secondo Aldous (2005; 2006; 2007) la creatività emerge dall’interazione di tre attività:

  • l’iterazione tra ragionamento visuo-spaziale e analitico-verbale
  • l’ascolto dei propri sentimenti e delle proprie intuizioni
  • l’interazione tra pensiero consapevole e non consapevole

Questo modello teorico postula che, sebbene l’emergere di soluzioni creative dipenda dai processi cognitivi, l’individuo può cogliere l’idea solo nel momento in cui si affida alla propria intuizione e alle proprie emozioni.

Dove si trova la creatività?

 

La maggior parte di voi avrà sentito almeno una volta che le perone creative tendono a utilizzare di più il cervello destro creativo e intuitivo, mentre il cervello sinistro sarebbe più analogico e logico.

Ma è proprio così?

Come è ormai noto, ogni area e struttura cerebrale è presente sia nell’emisfero destro sia nel sinistro del nostro cervello. Probabilmente nelle fasi iniziali dello sviluppo cerebrale umano, strutture uguali svolgevano funzioni uguali, ma, con il passare del tempo, il processo evolutivo ha seguito un principio di riduzione della ridondanza, conducendo a una certa quantità di lateralizzazione emisferica.

I due emisferi possono quindi collaborare all’esecuzione di un compito, ma lo fanno apportando contributi diversi, secondo l’ipotesi della lateralizzazione emisferica.

Quasi mai nel nostro cervello è possibile rintracciare una specifica area che si occupa solo di una capacità cognitiva. Molto più spesso, infatti, si ha a che fare con network cerebrali, ossia con una serie di zone comunicanti tra loro che assolvono vari compiti.

I circuiti neurali coinvolti nell’elaborazione di informazioni che generano combinazioni non creative sono gli stessi che producono combinazioni di informazioni creative o nuove. Le funzioni cognitive sono organizzare gerarchicamente, in particolare abbiamo:

  • Corteccia prefrontale è al top della gerarchia, coordinando le funzioni cognitive superiori
  • Sistema emozionale: sistema limbico (amigdala), corteccia cingolata e corteccia prefrontale ventromediale
  • Sistema cognitivo: ippocampo, cortecce temporali, parietali e occipitali

Entrambi i sistemi vengono reintegrati nella corteccia prefrontale dorsolaterale.

Creatività e conoscenza

 

Molto spesso si immagina il processo creativo come qualcosa di innato e spontaneo e meno legato allo studio e alla conoscenza di un determinato argomento. La creatività può assumere molteplici forme, come una teoria, una poesia, un processo, una sinfonia, oppure quella del problem soling creativo e di successo del campo scientifico o matematico. A seconda del tipo di “materia” di cui ci occupiamo, nel nostro cervello interverrà uno di questi processi.

Ma quale rapporto esiste tra creatività e conoscenza di una specifica materia?

Secondo alcuni ricercatori, il rapporto sarebbe una correlazione positiva, ossia all’aumentare della conoscenza di un determinato argomento, aumenterebbe la probabilità di ottenere soluzioni creative; un’altra scuola di pensiero, invece, ritiene che l’elevata conoscenza di un campo “imbriglierebbe” la creatività, rendendo molto difficile uscire dagli schemi di pensiero già assodati per arrivare a scoprire nuove strade.

Una soluzione proposta per risolvere questo dilemma consiste nel concepire il rapporto conoscenza-creatività come dominio-specifico: per le materie artistiche, quali la pittura, la musica o la letteratura, è più probabile che non sia necessaria un’ampia conoscenza di base di tali argomenti per produrre opere espressive che colpiscono il fruitore; diverso è invece il funzionamento delle materie scientifico-matematiche, dove per produrre una teoria innovativa è sicuramente necessario conoscere il background teorico precedente.

Come cambia la creatività nelle varie fasi di vita?

 

Come accennato sopra, la creatività è strettamente connessa al funzionamento della corteccia prefrontale, area del nostro cervello che arriva a una piena maturazione alla fine dell’adolescenza, intorno ai 20 anni, ed è però una delle prime a decadere a causa dell’invecchiamento.

Tale andamento evolutivo, porta con sé alcuni cambiamento nei processi creativi legati all’età:

  • Infanzia: creatività poco strutturata e appropriata, in quanto utilizza il sistema spontaneo ed è poco supportata dalla conoscenza.
  • Età adulta: il picco di creatività sembrerebbe essere intorno ai 35-39 anni, ma appare legato più che all’età cronologica al tipo di carriera intrapresa.
  • Planck Hypothesis: gli scienziati giovani sono più ricettivi all’innovazione
  • Terza età: il declino della flessibilità cognitiva con l’età sembra influenzare maggiormente la creatività nel campo scientifico piuttosto che artistico. Diventa infatti più difficile l’adattamento a nuovi set di regole, che dovrebbero essere utilizzati per produrre innovazione. Al contrario, in alcuni campi, come per esempio la filosofia, l’esperienza maturata nel corso della vita può dare vita a nuove posizioni.

È possibile allenare la creatività?

Al pari di tutte le abilità cognitive, anche la creatività può essere allenata!

Ecco due esercizi da poter provare quotidianamente:

  1. Trovare finali alternativi alle storie o ai fatti di cronaca
  2. Cercare nuovi utilizzi per oggetti di uso comune

 

Se provate a eseguirli, ci piacerebbe ricevere i vostri risultati!

 

 

Bibliografia

Aldous, C. R. (2007). Creativity, problem solving and innovative science: Insights from history, cognitive psychology and neuroscience.

Cropley, A. J. (1999). Definitions of creativity. In M. A. Runco & S. R. Pritzker (Eds.), Encyclopedia of creativity (Vol. 1, pp. 511-524). San Diego: Academic Press.

Dietrich, A. (2004). The cognitive neuroscience of creativity. Psychonomic bulletin & review11(6), 1011-1026.

Lubart, T. (2001). Models of the creative process:Past present and future. Creativity Research Journal, 13(3&4), 295-308.

Mumford, M. D. (2003a). Where have we been, where are we going? Taking stock in creativity research. Creativity Research Journal, 15(2 & 3), 107-120.

Sternberg, R. J., & O’Hara, L. A. (1999). Creativity and Intelligence. In S. R. J.Sternberg (Ed.), Handbook of creativity. (pp. 251-272). New York,.: Cambridge University Press.

Neuropsicologia: storia di una scienza

Neuropsicologia: storia di una scienza

La neuropsicologia è una disciplina scientifica che studia i deficit cognitivi ed emotivo-motivazionali causati da lesioni o disfunzioni del sistema nervoso centrale con lo scopo di esplorare la struttura funzionale della mente e i suoi correlati neurali (neuropsicologia sperimentale) e di fare diagnosi (neuropsicologia clinica).

Il termine “neuropsicologia” cominciò ad essere utilizzato a partire dalla metà del 1800, momento in cui iniziò ad affermarsi come disciplina distinta dalla psicologia e dalla neurologia. In Italia la nascita nella neuropsicologia come disciplina scientifica viene simbolicamente fatta risalire alla fondazione della rivista “Cortex” a Milano nel 1964 ad opera di De Renzi e Vignolo (Vallar, 2011).

Da allora la neuropsicologia ha avuto uno sviluppo crescente e oggi integra le conoscenze non solo di neurologia e psicologia, ma anche di altre discipline come neuroradiologia, medicina nucleare ed elettrofisiologia.

 

La relazione mente-cervello

Al medico tedesco Franz Joseph Gall va il merito di essere stato il primo nella storia a sviluppare una teoria sulla relazione mente-cervello. Il localizzazionismo ipotizzava che:

  1.  il cervello è l’organo della mente;
  2.  la mente è costituita da un numero definito di facoltà;
  3.  le facoltà sono innate e localizzate in specifiche regioni (organi) della corteccia cerebrale;
  4.  le dimensioni di ogni regione sono indice dello sviluppo della facoltà lì localizzata;
  5. la corrispondenza tra lo sviluppo maggiore o minore di una particolare facoltà e il volume aumentato o diminuito della regione cerebrale a essa associata determina la comparsa di una protuberanza o di una depressione della parte di osso cranico sovrastante;
  6.  palpando le diverse regioni del cranio è possibile determinare lo sviluppo delle facoltà mentali dei singoli individui.

Questa teoria, che risale agli inizi dell’800, cadde nel discredito già a partire dalla metà dello stesso secolo poichè non trovò conferma scientifica. Gall ipotizzò l’esistenza di innumerevoli facoltà mentali e delle relative localizzazioni che non trovarono mai un riscontro sperimentale, eccetto per il linguaggio la cui localizzazione determinò l’inizio della neuropsicologia moderna.

Nonostante le sue teorie siano state smentite, l’idea di un’organizzazione della mente in componenti distinte e localizzate in diverse parti del cervello è oggi il paradigma prevalente nelle neuroscienze cognitive.

 

La nascita della neuropsicologia

La nascita della neuropsicologia viene fatta risalire al 1861, quando il medico francese Paul Broca descrisse il caso di un paziente che presentava un’emiparesi destra e un’incapacità di esprimersi a parole a fronte di una capacità di comprensione linguistica e intelligenza preservate.

Il paziente di Broca divenne noto come monsieur Tan-tan poichè riusciva a produrre solo le sillabe “tan, tan”.

L’esame anatomo-patologico condotto post-mortem di monsierur Tan-tan rivelò una lesione della parte ventrale della terza circonvoluzione frontale, quella che oggi viene chiamata area di Broca. La correlazione anatomo-clinica permise a Broca di accertare la localizzazione del linguaggio nei lobi frontali dell’emisfero sinistro.

 

Cervello del paziente di Broca conservato al Musée Dupuytren di Parigi

 

La correlazione anatomo-clinica è metodo che mettere in relazione la sede e l’estensione di una lesione cerebrale con i deficit delle funzioni cognitive mostrati da un paziente. Permette, quindi, di inferire che:

  1. la lesione a una particolare area cerebrale causa un particolare deficit
  2. la funzione mentale compromessa è localizzata in quell’area

Questo metodo fu introdotto da Bouillaud e Broca quando nella seconda metà dell’800 ripresero le teorie di Gall sulla localizzazione del linguaggio nei lobi frontali studiando pazienti con lesioni cerebrali.

Nel periodo “classico” della neuropsicologia, compreso tra il 1861 e il 1920, furono descritti i principali deficit delle funzioni cognitive superiori e le loro basi cerebrali e fu concepito un nuovo modello della struttura delle funzioni mentali superiori: lo schema centri-connessioni.

I centri contengono determinate rappresentazioni e sono localizzati in regioni corticali specifiche; le connessioni (i fasci di sostanza bianca) collegano i diversi centri consentendo il trasferimento di informazioni. Questa concettualizzazione portò alla costruzione di diagrammi basati sull’osservazione di pazienti per descrivere il funzionamento di funzioni mentali superiori; uno degli esempi più famosi è il modello del linguaggio di Wernicke che aveva osservato pazienti che si comportavano in maniera opposta rispetto al paziente riportato da Broca. I pazienti con afasia di Wernicke, infatti, presentano una compromissione della comprensione uditivo-verbale, ma non della produzione del linguaggio; i pazienti con afasia di Broca presentano deficit di produzione, ma non di comprensione.

 

La neuropsicologia moderna

Nei decenni successivi, l’approccio dei costruttori di diagrammi fu sottoposto a diverse critiche:

  1. alla fine dell’800 molti neurologi preferivano un approccio più unitario e meno localizzazionista delle funzioni cognitive
  2. le osservazioni empiriche erano limitate a pochi pazienti, studiati singolarmente, non c’erano gruppi di controllo e non si utilizzavano test standardizzati.
  3. Il metodo utilizzato dal periodo classico, infatti, offriva solo delle osservazioni cliniche e non si avvaleva di un metodo scientifico di ricerca.
A partire dagli anni ’50 del secolo scorso i neuropsicologi hanno, quindi, cominciato a fare ricerca su gruppi di pazienti non selezionati in base a un particolare deficit, ma in base alla sede della lesione, a utilizzare test standardizzati che fornivano misurazioni quantitative della prestazione dei pazienti e a implementare procedure statistiche per confrontare le prestazioni dei pazienti con cerebrolesione a quelle di soggetti neurologicamente indenni.
 
Attualmente la ricerca in neuropsicologia indaga i deficit determinati da lesioni cerebrali sia in pazienti singoli che in gruppi di pazienti che presentano uno stesso deficit cognitivo in maniera omogenea.
 
Inoltre, le nuove metodiche di neuroimmagine strutturale (TAC e risonanza magnetica) e funzionale (es., PET e risonanza magnetica funzionale) sono in grado di evidenziare la sede e l’estensione della lesione causa del deficit in vivo e forniscono una misura dell’attività cerebrale. Questo ha permesso di dare nuova vita agli studi di correlazione anatomo-clinica propri degli inizi della neuropsicologia.
Bibliografia
Vallar, G. (2011). Introduzione alla neuropsicologia. In G., Vallar & C., Papagno (Cur.), Manuale di neuropsicologia (pp. 9-19). Il Mulino.
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