Nel 1911 lo psichiatra svizzero Bleuler conia il termine autismo per designare nei malati mentali adulti “l’evasione dalla realtà accompagnata dal predominio relativo o assoluto della vita interiore” (Resnik S., 1980). Questi pazienti, dunque, sembrano ritirarsi dal mondo reale e al contempo sembrano formare una modalità di pensiero aldilà e al di fuori di una logica, definita appunto autistica. 

L’autismo, secondo Bleuler, viene descritto come un sintomo secondario della schizofrenia; caratterizzato da un ritiro dal mondo circostante, per un vivere dentro il corpo. Il comportamento di queste persone viene descritto dallo psichiatra come apatico, indifferente ed il pensiero risulta ripetitivo, bizzarro, chiuso in circoli viziosi che portano all’isolamento. 

In queste persone si assiste ad un allontanamento dal mondo della vita sociale verso un mondo interiore. Il termine autismo deriva dal greco autòs che significa appunto “sé stesso” e che descrive il concetto del rivolgersi verso di sé.

Il concetto di autismo e di pensiero autistico rimane soprattutto un aspetto sintomatologico secondario o peculiare della schizofrenia, prevalentemente legato al paziente adulto, fino al 1943, anno in cui Kanner, pediatra americano di origine tedesca, scrive sulla rivista Pathology un articolo intitolato “Disturbi autistici del contatto affettivo. In tale articolo, Kanner propone una  diagnosi di autismo infantile precoce nei confronti di undici bambini il cui comportamento è del tutto peculiare e molto lontano dalla normalità, ma con caratteristiche che si ripetono all’interno del gruppo. Questi tratti consistono in una incapacità, presente sin dall’inizio della loro vita, di mettersi in contatto con gli altri e con le situazioni secondo il modo consueto, e in un desiderio ansioso e ossessivo di mantenere inalterato il proprio ambiente e le proprie abitudini di vita. Kanner dunque delinea una sindrome con qualità e caratteristiche proprie, separandola quindi dal grande gruppo delle schizofrenie.

Contemporaneamente in Europa, Asperger, un pediatra austriaco, descrive dei casi simili a quelli delineati da Kanner utilizzando lo stesso termine: “autistici”. Egli inoltre narra di bambini con compromissioni cognitive minori o in alcuni casi assenti, pertanto con il termine “Sindrome di Asperger”si intende una condizione di autismo non necessariamente associata a ritardo mentale.

In Francia invece, nel 1951, il medico Lelord inizia a studiare l’autismo da un punto di vista neurofisiologico. Grazie a tecniche elettroencefalografie evidenzia delle alterazioni importanti delle funzioni mentali elementari (percezione, associazione, formazione di riflessi condizionati) fondamentali per uno sviluppo mentale e comportamentale. 

Gli anni Cinquanta vedono l’affacciarsi di teorie che interpretano i genitori come “autismogeni”; Bettelheim, con la sua visione della madre come unica responsabile della catastrofe del figlio, risulta essere l’esponente di spicco di questa corrente di pensiero. Egli propone come terapia la parentectomia ovvero l’allontanamento dei figli dai genitori. Tali teorie attraversano tutto il Novecento ma fortunatamente non saranno le uniche. 

Negli anni Sessanta lo psicologo americano Scholper definisce un programma in cui i genitori vengono considerati dei coterapeuti. E’il metodo TEACCH che fornisce valutazioni e programmi educativi personalizzati a tutti i soggetti autistici con una circolarità continua tra assistenza, ricerca, formazione dei professionisti e dei genitori. 

Verso la fine del XX secolo sempre più neuropsichiatri abbandonano le teorie colpevolizzanti la madre per riconoscere la totale organicità del disturbo dello spettro autistico. 

Oggi i ricercatori sono in gran parte convinti che l’autismo non consista in un’entità singola e unitaria, ma in un cluster di condizioni di fondo. Queste producono una peculiare costellazione di comportamenti e bisogni, che si manifesta in modi diversi nei vari stadi dello sviluppo dell’individuo. Una risposta adeguata a quei bisogni comporta una vita di assistenza da parte di genitori, educatori e comunità. Asperger lo aveva predetto nel lontano 1938, ed era stato altrettanto preveggente insistendo sul fatto che i tratti dell’autismo non sono “affatto rari”. In effetti, date le attuali stime di prevalenza, le persone autistiche costituiscono una delle più ampie minoranze al mondo. 

Un’accurata revisione della storia dà ragione alla convinzione di Asperger che le persone autistiche abbiano sempre fatto parte della comunità umana, pur essendo state spesso relegate ai margini della società. Per gran parte del XX secolo sono rimaste nascoste sotto una gran mole di etichette in concorrenza tra loro: il “disturbo schizoide di personalità”, la “schizofrenia infantile”. 

Sulla scia della controversia sui vaccini, tuttavia, la società continua a inquadrare l’autismo come un’aberrazione contemporanea, un disturbo singolare di questi tempi singolarmente disordinati, dovuto a una tragica convergenza tra predisposizione genetica e fattori di rischio nascosti da qualche parte nel nocivo mondo moderno – come l’inquinamento dell’aria, l’overdose dei videogame e i cibi troppo raffinati.

Il nostro DNA racconta una storia diversa. In anni recenti, i ricercatori hanno determinato che gran parte dei casi di autismo non affonda le radici in rare mutazioni de novo, ma in geni molto antichi e ampiamente condivisi dalla popolazione generale, anche se maggiormente concentrati in alcune famiglie che in altre. 

Qualunque cosa sia l’autismo, non è un prodotto eccezionale della civiltà moderna; è uno strano dono del nostro passato profondo, tramandato attraverso milioni di anni di evoluzione.  

 

Bibliografia e sitografia

angsa.it

Silberman, S. (2016).“Neurotribù. I talenti dell’autismo e il futuro della neurodiversità”. LSWR Edizioni

Polletta, G. “Evoluzione storica del concetto di. autismo”. 

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