Le funzioni cognitive. Capitolo 3  Il linguaggio

 

Se in molte specie animali è presente una qualche forma di comunicazione, al fine di condividere messaggi utili ai bisogni primari, il linguaggio umano è una facoltà che va oltre questo scopo puramente evolutivo.

Secondo Merleau-Ponty (1945) il linguaggio è quell’abilità che ci permette di strutturare l’esperienza (e di raccontarla ad altri!); le parole, i suoni e i fonemi rappresentano gli oggetti in quanto ne esprimono l’essenza emozionale. La psicoterapia, terapia mediata linguisticamente, è tanto efficace quanto i farmaci nel trattamento di alcune patologie anche perché opera dei cambiamenti a livello cerebrale, mediati proprio dal linguaggio.

A livello puramente cognitivo, il linguaggio è definibile come una facoltà che utilizza un sistema si simboli vocali e grafici per permettere all’essere umano di esprimersi, comunicare opinioni, sentimenti, emozioni. Esso può essere orale o scritto e nel nostro cervello l’elaborazione di questi due tipi di stimoli segue due strade differenti.

La parola pronunciata, infatti, viene sottoposta a una prima analisi uditiva, si codifica l’input fonologico, che attiva nel nostro cervello la forma uditiva della parola nel lessico mentale, per poi arrivare al concetto. La parola scritta, invece, subisce in primo luogo un’analisi visiva, in cui viene codificato l’input ortografico. A questo punto, però, da una parte si attiva la forma visiva nella parola, che conduce alla fase della selezione lessicale, ma contemporaneamente lo stimolo ortografico rimanda all’elaborazione di tipo fonologico.

Il lessico mentale

In entrambi i casi, prima di poter “arrivare” al concetto, è chiaro che si debba passare dalla selezione della parola nel “lessico mentale”. Ma in che cosa consiste? Effettivamente, quasi tutte le teorie del linguaggio, seppur disparate, ne postulano l’esistenza. Sembrerebbe che il lessico mentale sia una specie di “magazzino” che contiene tutte le informazioni semantiche, sintattiche e relative alla forma delle parole.

Il contenuto di tale magazzino non è fisso, e l’accesso è più veloce per le parole che utilizziamo maggiormente nella quotidianità (ecco da dove deriva l’utilità degli esercizi di fluenza verbale). Inoltre, sembra che vi sia un “effetto di vicinanza” per le parole che si assomigliano dal punto di vista acustico, che determinerebbe una maggior velocità dei tempi di reazione a parole che condividono caratteristiche acustiche.

Dove si trova il linguaggio nel nostro cervello?

Lo studio dei correlati neurali del linguaggio è strettamente legato ai nomi di due studiosi: Paul Broca e Karl Wernicke. Essi infatti, studiando i cervelli di pazienti affetti da disturbi del linguaggio, scoprirono per primi due aree fondamentali per l’elaborazione del linguaggio e che sono tutt’oggi chiamate con i loro nomi.

Broca osservò nel cosiddetto Monsieur Tan come una lesione dell’area situata nell’emisfero frontale sinistro, sopra il solco di Silvio (aree di Broadmann 44-45) rendeva il soggetto incapace di produrre alcuna parola a eccezione della sillaba “tan” (da cui deriva il soprannome del paziente).

Wernicke, invece, qualche anno dopo, studiò dei pazienti in cui una lesione specifica della parte posteriore dell’area di Broadmann 22, situata nel lobo superiore dell’emisfero sinistro, produceva un’incapacità di comprendere quanto veniva loro detto, anche a fronte di una corretta articolazione delle parole (seppur spesso messe insieme in modo poso sensato).

Per parecchio tempo si è pensato che le aree di Broca e di Wernicke fossero le uniche deputate all’elaborazione del linguaggio, ma dalla metà del ‘900 in poi si è scoperto che questa capacità cognitiva dipende da un network molto più ampio, connesso con altre aree corticali e sottocorticali che si occupano di altre abilità quali l’udito, la motricità, l’attenzione, la vista, ecc.

Come si apprende il linguaggio?

Che il linguaggio sia una capacità che accomuna gli esseri umani di tutto il mondo e di tutte le culture è innegabile, ma come si apprende questa spettacolare abilità?

Tra gli studiosi che nel corso del tempo hanno provato a spiegarlo, ricordiamo  Bruner, Piaget, Vygotsky, Chomsky e Skinner.

Secondo il comportamenetista Burrhus Frederic Skinner, il linguaggio è un comportamento verbale, il cui processo di acquisizione  è paragonabile a tutti gli altri tipi di comportamenti umani e animali. Secondo Skinner, il bambino alla nascita sarebbe una tabula rasa, e la percezione degli stimoli e dei rinforzi linguistici appropriati dall’ambiente gli consentirebbe l’apprendimento del linguaggio. Il rinforzo linguistico dell’adulto, quindi, plasmerebbe le espressioni inizialmente scorrette del bambino.

Nettamente contrapposta è invece la visione di Noam Chomsky, linguista statunitense famoso per la sua Teoria della Grammatica Universale, secondo cui il linguaggio sarebbe una facoltà innata dell’essere umano. Egli postulò l’esistenza di un dispositivo innato che permette l’acquisizione del linguaggio e la presenza di una grammatica universale, cioè un bagaglio di conoscenze innate finalizzate al linguaggio che ci servono per rintracciare la struttura delle frasi che sentiamo. Tale bagaglio serve per imparare una QUALSIASI lingua, quindi deve essere innato. A sostegno della sua ipotesi, Chomsky osservò l’incredibile rapidità e uniformità osservabili nei bambini durante l’apprendimento del linguaggio.

Come allenare il linguaggio?

Alcune abilità cognitive, come la velocità di elaborazione e la memoria, durante l’invecchiamento tendono a ridurre la loro efficacia. A differenza di esse, il linguaggio è una delle capacità che si basa maggiormente sull’esperienza, ed è facilmente immaginabile come il vocabolario di un individuo cresca man mano che si va avanti con gli anni.

Purtroppo però, non è sufficiente “possedere” molte parole nel proprio lessico mentale (lessico passivo), in quanto man mano che si riducono i contesti di conversazione attiva, si tenderà a utilizzare sempre meno parole (lessico attivo).

Un consiglio sempre valido per tenere allenato il linguaggio, come del resto tutte le altre componenti cognitive, è quello di frequentare il più possibile contesti sociali nei quali parlare con altre persone, scambiarsi opinioni su quello che succede nel mondo, nella città, nel quartiere. Utile anche cercare di essere il più precisi possibile nel nominare gli oggetti, cercando di evitare l’utilizzo delle cosiddette “parole pass-par-tout”, cioè quei vocaboli generali (“cosa”, “coso”, “roba”, ecc.) in sostituzione dei nomi specifici degli oggetti.

Altri esercizi specifici che si possono attuare, come ricordato sopra, sono esercizi di fluenza verbale fonemica (ossia produzione di tutte le parole che ci vengono in mente che iniziano con una data lettera), di fluenza verbale semantica (trovare tutte le parole che ci vengono in mente appartenenti a una data categoria), o mischiare entrambi gli esercizi, magari giocando con i propri nipoti al famoso “Nomi, Cose, Città…”.

 

Bibliografia

Dentici, O. A., Amoretti, G., & Cavallini, E. (2004). La memoria degli anziani. Una guida per mantenerla in efficienza. Edizioni Erickson.

Gazzaniga, M. S., Ivry, R. B., Mangun, G. R., Zani, A., & Proverbio, A. M. (2015). Neuroscienze cognitive. Zanichelli.

Merleau-Ponty, M. (1945). Fenomenologia della percezione. Giunti.

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