Deprivazione uditiva e neuropsicologia

Si stima che in Italia circa 1 persona su 6 soffra di qualche tipo di perdita uditiva, e che molte di esse non siano trattate. Secondo alcune statistiche, l’ipoacusia non trattata costa annualmente all’Italia 21,3 miliardi di euro (Bernabei et al., 2014).

Se consideriamo le funzioni cognitive come processi che coinvolgono tutti gli aspetti della percezione, del pensiero e del ragionamento è immediata la comprensione della correlazione tra la perdita uditiva e il cambiamento di alcune attività cerebrali.

Per quanto riguarda in particolare la popolazione anziana, la perdita di udito sembra avere tre principali impatti(Huang et al., 2010; Bernabei et al., 2014):
Funzionale: l’aumento del carico cognitivo – Anatomico: la modificazione delle strutture cerebrali;
Sociale: l’isolamento sociale e conseguente sintomatologia depressiva.

L’ipoacusia come fattore di rischio

In Italia, circa 1.200.000 persone con più di 65 anni soffrono di patologie neurodegenerative (Prince et al., 2015). Secondo recenti pubblicazioni della Lancet Commission (Livingstone et al., 2020) soffrire di un’ipoacusia periferica durante la mezza età (a partire dai 55 anni) si pone come fattore di rischio per lo sviluppo di declino cognitivo da anziani. Nello specifico, l’ipoacusia periferica anche lieve si attesta come fattore di rischio modificabile, aumentando del 9% il rischio a lungo termine di sviluppare decadimento cognitivo. Tale valore costituirebbe la percentuale più alta tra i fattori di rischio modificabili, che costituiscono tutti insieme il 40%. Inoltre, vista l’alta prevalenza dell’ipoacusia nella popolazione, che si attesta a 32% in coloro con più di 55 anni (Scholes & Mandel, 2014), appare evidente come essa debba essere presa in seria considerazione nel momento in cui si attuano programmi preventivi per la popolazione anziana. I meccanismi sottostanti l’associazione tra perdita di udito e decadimento cognitivo sono ad oggi ancora poco chiari e vi sono molteplici ipotesi. Per comprenderle occorre partire dal presupposto che la perdita uditiva legata all’età (presbiacusia) riflette un danno progressivo delle strutture cocleari, ottenendo come risultato una minore codificazione del suono dalla coclea e una minore afferenza cerebrale degli input uditivi. Una prima spiegazione fa riferimento al fatto che la deprivazione uditiva
possa aumentare il carico cognitivo e condurre quindi a modificazioni cerebrali, a isolamento sociale e depressione, accelerando quindi l’atrofia cerebrale, fattori che tutti insieme contribuirebbero a un maggiore declino cognitivo (McCoy et al., 2005; Gopinath et al., 2009; Huang et al., 2010; Lin & Albert, 2014; Lin et al., 2014b; Bernabei et al., 2014).

Dall’altro lato, l’associazione tra demenza di tutti i tipi e perdita uditiva sembra dipendere anche da meccanismi eziopatogenetici comuni, quali età, fattori dei rischio vascolari (diabete, fumo), fattori sociali come il livello di scolarizzazione (Lin et al., 2011; 2014b).

Poiché ad oggi non esistono cure risolutive per le demenze, è ormai assodato che il beneficio maggiore a livello socio-economico e medico derivi dal ritardare l’insorgenza dei sintomi e dalla prevenzione e trattamento dei fattori di rischio modificabili, tra cui la perdita di udito. È tuttavia ancora oggetto di studio se l’utilizzo di protesi acustiche possa mitigare l’effetto dell’ipoacusia sullo sviluppo di deficit cognitivi. Migliorare la prestazione uditiva, infatti, non sembra avere effetti sulle abilità cognitive di individui con demenza (Allen et al., 2003). Al contrario, però, la neuroplasticità sembra essere un elemento fondamentale al fine di ottenere un buon recupero uditivo e alcuni studi epidemiologici hanno mostrato un effetto apparentemente protettivo dato dall’utilizzo delle protesi (Merabet & Pascual-Leone, 2010; Lin et al., 2014b).

Appare quindi come il mero suggerimento di una protesi acustica non sia risolutivo, e come ci sia necessità di un intervento più complesso e multidisciplinare. Solo una minoranza delle persone ipoacusiche è infatti correttamente diagnosticato, e anche quando prescritti, spesso gli apparecchi acustici non vengono adeguatamente utilizzati (Davis et al., 2007).

Effetti neuropsicologici della deprivazione uditiva

La deprivazione uditiva produce molteplici effetti cerebrali, che si rispecchiano su individuo, corpo e ambiente e le loro reciproche interazioni. Udito e cognizione interagiscono a livello dell’elaborazione delle informazioni su tre livelli, ognuno dei quali può mostrare un declino legato all’avanzare dell’età: acuità uditiva periferica, elaborazione uditiva centrale e operazioni cognitive (Wingfield et al., 2005). Tali livelli interagiscono nel rendere più difficoltosa la comprensione del linguaggio parlato negli anziani con problemi uditivi, rendendo necessario fare maggiore riferimento al contesto per colmare gli input che non vengono percepiti. Tale compensazione ha dei costi a livello cognitivo: maggiore difficoltà nel richiamo mnesico e scarsa working memory. Questo effetto è conosciuto come “effortfulness effect”: l’ingente sforzo cognitivo necessario per l’elaborazione degli stimoli uditivi toglie risorse per altri compiti (Rabbitt, 1968; Tun et al., 2009).
All’interno di uno studio volto a determinare i fattori di rischio per lo sviluppo di patologie neurodegenerative (Baltimore Longitudinal Study of Aging) l’attenzione è stata focalizzata su quali funzioni cognitive fossero maggiormente colpite dalla perdita uditiva. È risultato che la riduzione della performance cognitiva riguardava principalmente la memoria e le funzioni esecutive. Tale risultato rafforza i dati precedenti che mostrano associazioni significative tra perdita uditiva e peggiori performance cognitive sia in test verbali che non verbali (Lin et al., 2011). Altri risultati, inoltre, evidenziano come le aree uditive degli individui non udenti sarebbero coinvolte nell’elaborazione di stimoli cross-modali (Merabet & Pascual-Leone, 2010). Questi dati pongono l’attenzione sul ruolo della neuroplasticità nel contribuire a una buona riabilitazione uditiva, ma evidenziano come sia anche possibile che tali compensazioni cross modali si pongano da ostacolo in alcuni casi, fornendo input sensoriali intrusivi e di conseguenza riducendo le abilità inibitorie dei soggetti. Ciò suggerisce la necessità di potenziare l’azione della neuroplasticità nel momento in cui viene ripristinata l’affluenza sensoriale di cui si era deprivati attraverso adeguati interventi di stimolazione cognitiva e riabilitazione acustica.
Studi effettuati con tecniche di neuroimaging hanno mostrato un legame tra deprivazione uditiva periferica e ridotto volume corticale nella corteccia uditiva primaria (Peelle et al., 2011), responsabile dell’inizio dell’elaborazione degli stimoli verbali, che produrrebbe quindi un maggiore sforzo nell’elaborazione del linguaggio parlato. Tale osservazione è legata ai risultati relativi un aumento dell’attività delle zone frontali e prefrontali in risposta a un aumento di sforzo cognitivo per la comprensione del linguaggio (Davis & Jhonsrude, 2003). Nonostante, come già evidenziato, non ci siano ancora spiegazioni univoche per questi fenomeni, sembrerebbe che un impoverito input auditivo comporti una riorganizzazione a livello cerebrale, producendo un effetto cascata diffuso su altri network cognitivi. Inoltre è stato rilevato come individui con perdita uditiva abbiano nel tempo una maggiore riduzione del volume cerebrale rispetto a soggetti con udito preservato, in particolare per quanto riguarda le strutture del lobo temporale legate all’elaborazione del linguaggio parlato. Sembrano particolarmente rilevanti i cambiamenti del giro temporale inferiore e medio, a causa della loro implicazione non solo nell’elaborazione del linguaggio parlato, ma anche della memoria semantica, integrazione sensoriale e delle fasi precoci di MCI (Mild Cognitive Impairment) e Malattia di Alzheimer (Lin et al., 2014b).


BIBLIOGRAFIA

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