Le funzioni cognitive. Capitolo 3  Il linguaggio

Le funzioni cognitive. Capitolo 3 Il linguaggio

Le funzioni cognitive. Capitolo 3  Il linguaggio

 

Se in molte specie animali è presente una qualche forma di comunicazione, al fine di condividere messaggi utili ai bisogni primari, il linguaggio umano è una facoltà che va oltre questo scopo puramente evolutivo.

Secondo Merleau-Ponty (1945) il linguaggio è quell’abilità che ci permette di strutturare l’esperienza (e di raccontarla ad altri!); le parole, i suoni e i fonemi rappresentano gli oggetti in quanto ne esprimono l’essenza emozionale. La psicoterapia, terapia mediata linguisticamente, è tanto efficace quanto i farmaci nel trattamento di alcune patologie anche perché opera dei cambiamenti a livello cerebrale, mediati proprio dal linguaggio.

A livello puramente cognitivo, il linguaggio è definibile come una facoltà che utilizza un sistema si simboli vocali e grafici per permettere all’essere umano di esprimersi, comunicare opinioni, sentimenti, emozioni. Esso può essere orale o scritto e nel nostro cervello l’elaborazione di questi due tipi di stimoli segue due strade differenti.

La parola pronunciata, infatti, viene sottoposta a una prima analisi uditiva, si codifica l’input fonologico, che attiva nel nostro cervello la forma uditiva della parola nel lessico mentale, per poi arrivare al concetto. La parola scritta, invece, subisce in primo luogo un’analisi visiva, in cui viene codificato l’input ortografico. A questo punto, però, da una parte si attiva la forma visiva nella parola, che conduce alla fase della selezione lessicale, ma contemporaneamente lo stimolo ortografico rimanda all’elaborazione di tipo fonologico.

Il lessico mentale

In entrambi i casi, prima di poter “arrivare” al concetto, è chiaro che si debba passare dalla selezione della parola nel “lessico mentale”. Ma in che cosa consiste? Effettivamente, quasi tutte le teorie del linguaggio, seppur disparate, ne postulano l’esistenza. Sembrerebbe che il lessico mentale sia una specie di “magazzino” che contiene tutte le informazioni semantiche, sintattiche e relative alla forma delle parole.

Il contenuto di tale magazzino non è fisso, e l’accesso è più veloce per le parole che utilizziamo maggiormente nella quotidianità (ecco da dove deriva l’utilità degli esercizi di fluenza verbale). Inoltre, sembra che vi sia un “effetto di vicinanza” per le parole che si assomigliano dal punto di vista acustico, che determinerebbe una maggior velocità dei tempi di reazione a parole che condividono caratteristiche acustiche.

Dove si trova il linguaggio nel nostro cervello?

Lo studio dei correlati neurali del linguaggio è strettamente legato ai nomi di due studiosi: Paul Broca e Karl Wernicke. Essi infatti, studiando i cervelli di pazienti affetti da disturbi del linguaggio, scoprirono per primi due aree fondamentali per l’elaborazione del linguaggio e che sono tutt’oggi chiamate con i loro nomi.

Broca osservò nel cosiddetto Monsieur Tan come una lesione dell’area situata nell’emisfero frontale sinistro, sopra il solco di Silvio (aree di Broadmann 44-45) rendeva il soggetto incapace di produrre alcuna parola a eccezione della sillaba “tan” (da cui deriva il soprannome del paziente).

Wernicke, invece, qualche anno dopo, studiò dei pazienti in cui una lesione specifica della parte posteriore dell’area di Broadmann 22, situata nel lobo superiore dell’emisfero sinistro, produceva un’incapacità di comprendere quanto veniva loro detto, anche a fronte di una corretta articolazione delle parole (seppur spesso messe insieme in modo poso sensato).

Per parecchio tempo si è pensato che le aree di Broca e di Wernicke fossero le uniche deputate all’elaborazione del linguaggio, ma dalla metà del ‘900 in poi si è scoperto che questa capacità cognitiva dipende da un network molto più ampio, connesso con altre aree corticali e sottocorticali che si occupano di altre abilità quali l’udito, la motricità, l’attenzione, la vista, ecc.

Come si apprende il linguaggio?

Che il linguaggio sia una capacità che accomuna gli esseri umani di tutto il mondo e di tutte le culture è innegabile, ma come si apprende questa spettacolare abilità?

Tra gli studiosi che nel corso del tempo hanno provato a spiegarlo, ricordiamo  Bruner, Piaget, Vygotsky, Chomsky e Skinner.

Secondo il comportamenetista Burrhus Frederic Skinner, il linguaggio è un comportamento verbale, il cui processo di acquisizione  è paragonabile a tutti gli altri tipi di comportamenti umani e animali. Secondo Skinner, il bambino alla nascita sarebbe una tabula rasa, e la percezione degli stimoli e dei rinforzi linguistici appropriati dall’ambiente gli consentirebbe l’apprendimento del linguaggio. Il rinforzo linguistico dell’adulto, quindi, plasmerebbe le espressioni inizialmente scorrette del bambino.

Nettamente contrapposta è invece la visione di Noam Chomsky, linguista statunitense famoso per la sua Teoria della Grammatica Universale, secondo cui il linguaggio sarebbe una facoltà innata dell’essere umano. Egli postulò l’esistenza di un dispositivo innato che permette l’acquisizione del linguaggio e la presenza di una grammatica universale, cioè un bagaglio di conoscenze innate finalizzate al linguaggio che ci servono per rintracciare la struttura delle frasi che sentiamo. Tale bagaglio serve per imparare una QUALSIASI lingua, quindi deve essere innato. A sostegno della sua ipotesi, Chomsky osservò l’incredibile rapidità e uniformità osservabili nei bambini durante l’apprendimento del linguaggio.

Come allenare il linguaggio?

Alcune abilità cognitive, come la velocità di elaborazione e la memoria, durante l’invecchiamento tendono a ridurre la loro efficacia. A differenza di esse, il linguaggio è una delle capacità che si basa maggiormente sull’esperienza, ed è facilmente immaginabile come il vocabolario di un individuo cresca man mano che si va avanti con gli anni.

Purtroppo però, non è sufficiente “possedere” molte parole nel proprio lessico mentale (lessico passivo), in quanto man mano che si riducono i contesti di conversazione attiva, si tenderà a utilizzare sempre meno parole (lessico attivo).

Un consiglio sempre valido per tenere allenato il linguaggio, come del resto tutte le altre componenti cognitive, è quello di frequentare il più possibile contesti sociali nei quali parlare con altre persone, scambiarsi opinioni su quello che succede nel mondo, nella città, nel quartiere. Utile anche cercare di essere il più precisi possibile nel nominare gli oggetti, cercando di evitare l’utilizzo delle cosiddette “parole pass-par-tout”, cioè quei vocaboli generali (“cosa”, “coso”, “roba”, ecc.) in sostituzione dei nomi specifici degli oggetti.

Altri esercizi specifici che si possono attuare, come ricordato sopra, sono esercizi di fluenza verbale fonemica (ossia produzione di tutte le parole che ci vengono in mente che iniziano con una data lettera), di fluenza verbale semantica (trovare tutte le parole che ci vengono in mente appartenenti a una data categoria), o mischiare entrambi gli esercizi, magari giocando con i propri nipoti al famoso “Nomi, Cose, Città…”.

 

Bibliografia

Dentici, O. A., Amoretti, G., & Cavallini, E. (2004). La memoria degli anziani. Una guida per mantenerla in efficienza. Edizioni Erickson.

Gazzaniga, M. S., Ivry, R. B., Mangun, G. R., Zani, A., & Proverbio, A. M. (2015). Neuroscienze cognitive. Zanichelli.

Merleau-Ponty, M. (1945). Fenomenologia della percezione. Giunti.

Le funzioni cognitive. Capitolo 4  La creatività

Le funzioni cognitive. Capitolo 4 La creatività

Le funzioni cognitive. Capitolo 4 La creatività

Che cos’è la creatività?

La creatività è definibile in neuropsicologia come la “produzione di efficaci novità“. In questa definizione emergono immediatamente due aspetti: la novità e l’utilità. Essa richiede l’apporto di altre funzioni cognitive quali la memoria di lavoro, l’attenzione sostenuta, la flessibilità cognitiva e l’abilità di giudizio.

Sembrerebbe però che esista più di un tipo di creatività. Nello specifico, incrociando due domini di conoscenza (emotivo e cognitivo) e due modalità di elaborazione delle informazioni (volontario e spontaneo), si avrebbero come risultato quattro tipi di creatività:

  1. Emotiva volontaria
  2. Emotiva spontanea
  3. Cognitiva volontaria
  4. Cognitiva spontanea

Da dove nasce un’idea?

Nel corso dei secoli, con il susseguirsi di varie scuole di pensiero, la nascita di nuove idee è stata attribuita a Dio, alla ragione, all’intuizione. Al giorno d’oggi, si crede che la risposta sia da ricercare nella natura dell’esperienza e della cultura.

Verosimilmente la creatività nasce dall’intersezione tra elementi cognitivi (pensiero e ragionamento) e non-cognitivi (intuizione ed emozioni).

Secondo Aldous (2005; 2006; 2007) la creatività emerge dall’interazione di tre attività:

  • l’iterazione tra ragionamento visuo-spaziale e analitico-verbale
  • l’ascolto dei propri sentimenti e delle proprie intuizioni
  • l’interazione tra pensiero consapevole e non consapevole

Questo modello teorico postula che, sebbene l’emergere di soluzioni creative dipenda dai processi cognitivi, l’individuo può cogliere l’idea solo nel momento in cui si affida alla propria intuizione e alle proprie emozioni.

Dove si trova la creatività?

 

La maggior parte di voi avrà sentito almeno una volta che le perone creative tendono a utilizzare di più il cervello destro creativo e intuitivo, mentre il cervello sinistro sarebbe più analogico e logico.

Ma è proprio così?

Come è ormai noto, ogni area e struttura cerebrale è presente sia nell’emisfero destro sia nel sinistro del nostro cervello. Probabilmente nelle fasi iniziali dello sviluppo cerebrale umano, strutture uguali svolgevano funzioni uguali, ma, con il passare del tempo, il processo evolutivo ha seguito un principio di riduzione della ridondanza, conducendo a una certa quantità di lateralizzazione emisferica.

I due emisferi possono quindi collaborare all’esecuzione di un compito, ma lo fanno apportando contributi diversi, secondo l’ipotesi della lateralizzazione emisferica.

Quasi mai nel nostro cervello è possibile rintracciare una specifica area che si occupa solo di una capacità cognitiva. Molto più spesso, infatti, si ha a che fare con network cerebrali, ossia con una serie di zone comunicanti tra loro che assolvono vari compiti.

I circuiti neurali coinvolti nell’elaborazione di informazioni che generano combinazioni non creative sono gli stessi che producono combinazioni di informazioni creative o nuove. Le funzioni cognitive sono organizzare gerarchicamente, in particolare abbiamo:

  • Corteccia prefrontale è al top della gerarchia, coordinando le funzioni cognitive superiori
  • Sistema emozionale: sistema limbico (amigdala), corteccia cingolata e corteccia prefrontale ventromediale
  • Sistema cognitivo: ippocampo, cortecce temporali, parietali e occipitali

Entrambi i sistemi vengono reintegrati nella corteccia prefrontale dorsolaterale.

Creatività e conoscenza

 

Molto spesso si immagina il processo creativo come qualcosa di innato e spontaneo e meno legato allo studio e alla conoscenza di un determinato argomento. La creatività può assumere molteplici forme, come una teoria, una poesia, un processo, una sinfonia, oppure quella del problem soling creativo e di successo del campo scientifico o matematico. A seconda del tipo di “materia” di cui ci occupiamo, nel nostro cervello interverrà uno di questi processi.

Ma quale rapporto esiste tra creatività e conoscenza di una specifica materia?

Secondo alcuni ricercatori, il rapporto sarebbe una correlazione positiva, ossia all’aumentare della conoscenza di un determinato argomento, aumenterebbe la probabilità di ottenere soluzioni creative; un’altra scuola di pensiero, invece, ritiene che l’elevata conoscenza di un campo “imbriglierebbe” la creatività, rendendo molto difficile uscire dagli schemi di pensiero già assodati per arrivare a scoprire nuove strade.

Una soluzione proposta per risolvere questo dilemma consiste nel concepire il rapporto conoscenza-creatività come dominio-specifico: per le materie artistiche, quali la pittura, la musica o la letteratura, è più probabile che non sia necessaria un’ampia conoscenza di base di tali argomenti per produrre opere espressive che colpiscono il fruitore; diverso è invece il funzionamento delle materie scientifico-matematiche, dove per produrre una teoria innovativa è sicuramente necessario conoscere il background teorico precedente.

Come cambia la creatività nelle varie fasi di vita?

 

Come accennato sopra, la creatività è strettamente connessa al funzionamento della corteccia prefrontale, area del nostro cervello che arriva a una piena maturazione alla fine dell’adolescenza, intorno ai 20 anni, ed è però una delle prime a decadere a causa dell’invecchiamento.

Tale andamento evolutivo, porta con sé alcuni cambiamento nei processi creativi legati all’età:

  • Infanzia: creatività poco strutturata e appropriata, in quanto utilizza il sistema spontaneo ed è poco supportata dalla conoscenza.
  • Età adulta: il picco di creatività sembrerebbe essere intorno ai 35-39 anni, ma appare legato più che all’età cronologica al tipo di carriera intrapresa.
  • Planck Hypothesis: gli scienziati giovani sono più ricettivi all’innovazione
  • Terza età: il declino della flessibilità cognitiva con l’età sembra influenzare maggiormente la creatività nel campo scientifico piuttosto che artistico. Diventa infatti più difficile l’adattamento a nuovi set di regole, che dovrebbero essere utilizzati per produrre innovazione. Al contrario, in alcuni campi, come per esempio la filosofia, l’esperienza maturata nel corso della vita può dare vita a nuove posizioni.

È possibile allenare la creatività?

Al pari di tutte le abilità cognitive, anche la creatività può essere allenata!

Ecco due esercizi da poter provare quotidianamente:

  1. Trovare finali alternativi alle storie o ai fatti di cronaca
  2. Cercare nuovi utilizzi per oggetti di uso comune

 

Se provate a eseguirli, ci piacerebbe ricevere i vostri risultati!

 

 

Bibliografia

Aldous, C. R. (2007). Creativity, problem solving and innovative science: Insights from history, cognitive psychology and neuroscience.

Cropley, A. J. (1999). Definitions of creativity. In M. A. Runco & S. R. Pritzker (Eds.), Encyclopedia of creativity (Vol. 1, pp. 511-524). San Diego: Academic Press.

Dietrich, A. (2004). The cognitive neuroscience of creativity. Psychonomic bulletin & review11(6), 1011-1026.

Lubart, T. (2001). Models of the creative process:Past present and future. Creativity Research Journal, 13(3&4), 295-308.

Mumford, M. D. (2003a). Where have we been, where are we going? Taking stock in creativity research. Creativity Research Journal, 15(2 & 3), 107-120.

Sternberg, R. J., & O’Hara, L. A. (1999). Creativity and Intelligence. In S. R. J.Sternberg (Ed.), Handbook of creativity. (pp. 251-272). New York,.: Cambridge University Press.

“Alla mia età non posso fare niente per cambiare”…ma è proprio vero?

“Alla mia età non posso fare niente per cambiare”…ma è proprio vero?

“Alla mia età non posso fare niente per cambiare”…ma è proprio vero?

L’Italia è uno dei paesi europei in cui l’indice di anzianità è più alto, attestandosi a 165,3%, con il 22% della popolazione che ha superato i 65 anni. Sebbene al giorno d’oggi la visione dell’invecchiamento di sta modificando, e le persone sono sempre più in salute anche in tarda età, è innegabile che nel corso dell’invecchiamento si diventi più vulnerabili. Tale vulnerabilità è dovuta a importanti modificazioni biolgiche, sociali e psicologiche che aumentano la probabilità per la persona anziana di sviluppare condizioni polipatologiche, in particolare a carattere cronico-degenerativo, e alla manifestazione di quadri psicopatologici, quali depressione, disturbi d’ansia, sintomi somatici.

Per esempio negli ultrasessantacinquenni l’incidenza della depressione è molto alta, e si attesta al 20% tra coloro che risiedono a domicilio, per salire al 30% tra gli anziani ricoverati in ospedale e addirittura al 45% tra gli ospiti delle RSA. Se i giovani hanno davanti a sé un futuro da costruire e, chi più chi meno, un’ampia gamma di possibilità da vivere, l’anziano si trova spesso a fare i conti con una diminuzione, biologica, del tempo a propria disposizione nella vita e, soprattutto, con un restringimento delle possibilità d’azione nel mondo.

 

Quali temi critici nell’anziano?

Per esempio, è frequente che le persone anziane vivano delle esperienze di perdita di vario tipo: di persone care (lutti), del proprio ruolo sociale (pensionamento) della funzionalità fisica e della propria indipendenza (difficoltà motorie, perdita della patente di guida). Altri temi tipici possono essere quelli legati al presentarsi di condizioni patologiche e al caregiving, più frequenti nel corso del procedere dell’arco di vita.

Spesso le manifestazioni psicopatologiche della terza età si differenziano da quelle che esordiscono più precocemente nell’arco di vita. Negli stati depressivi, per esempio, sono maggiormente presenti sintomi quali agitazione, disturbi gastrointestinali, affaticamento, alterazioni cognitive, preoccupazioni relative alla disabilità, alla malattia e alla morte. Altra complicazione che interviene nel processo diagnostico è riferita all’imponente componente somatica, che spesso si sovrappone alla sintomatologia riferita a patologie in comorbidità. Specifica attenzione poi andrebbe posta al presentarsi di problematiche cognitive, in particolare riferite alle abilità mnesiche e attentive, che spesso possono essere legate alla presenza di stati ansiosi o depressivi piuttosto che all’insorgenza di disturbi neurodegenerativi a carattere dementigeno.

Quando viene proposto un percorso psicologico a una persona anziana, accade spesso, però, di sentire la frase:Ma alla mia età, cosa vuole che possa cambiare!”, come se si desse per scontato che l’invecchiamento porti con sé una sorta di immutabilità. In realtà, a prescindere dall’approccio psicoterapeutico adottato, molteplici sono le evidenze dell’efficacia del sostegno psicologico in età avanzata. Tale efficacia sembra essere intrinsecamente legata alla costruzione di uno spazio di cura individualizzato sui bisogni della persona e sulle peculiarità culturali presenti negli individui anziani. Tutto ciò può consentire alla persona di aprire nuovi spazi di esperienza, allargando di fatto le proprie possibilità d’azione nel mondo. Per esempio, diventa essenziale valorizzare le storie personali, i rapporti con i nipoti e la frequentazione di realtà che possano rendere le tematiche da critiche a utili.

Come promuovere una cura psicologica nell’anziano?

Per far fronte all’effettiva aumentata vulnerabilità dell’invecchiamento, di primaria importanza appare l’implementazione di interventi preventivi, come campagne di formazione/informazione territoriali, volti alla promozione della salute e del benessere degli anziani, soprattutto presso strutture che raccolgono soggetti ad alto rischio, quali ospedali e case di riposo. 

Rimane tuttavia una cultura dominante in cui sono presenti parecchi falsi miti sull’invecchiamento. Eccone qualcuno:

  1. Invecchiare vuol dire perdere abilità
  2. È normale che una persona anziana sia depressa
  3. La psicoterapia è inefficace durante la terza età

Per poter permettere alle persone anziane di accedere alla cura non solo medica, ma anche psicologica, è di primaria importanza promuovere una nuova visione dell’invecchiamento, in cui la terza età sia vista come un momento di cambiamento, sì, ma che porta con sé un’evoluzione in cui la salute, sia fisica che psichica, non solo è possibile ma anche e soprattutto molto frequente.

Bibliografia

Anderson, D., & Wattis, J. (2014). Psychotherapeutic approaches to the elderly: Part One. Geriatric Medicine44, 31-33.

Atiq, R. (2006). Common Themes and issues in Geriatric Psychotherapy. Psychiatry (Edgmont)3(6), 53.

Ballerio, M., Damiani, S., Grazioli, L., Panigati, R., Vanini, B., Veglia, T. A., … & Politi, P. (2013). Psicofarmacoterapia nel paziente anziano istituzionalizzato: un’indagine epidemiologica. Bollettino della Società Medico Chirurgica di Pavia,126(1), 167-174.

Lane, C. (2007). Geriatric mental health and the concept of in home psychotherapy. Presented at: NACSW Convention 2007 March 2007 Dallas, TX

Vampini, C, Bellantuono, C., (2002). La terapia dell’ansia e della depressione nell’anziano. NÓOς 1, 7-46.

Lo sport. Quali insidie nasconde?

Lo sport. Quali insidie nasconde?

Lo sport. Quali insidie nasconde?

 

Lo sport racconta molti aspetti della nostra personalità. C’è chi preferisce sport di squadra, chi individuali, chi ama praticarlo all’aria aperta, chi in spazi chiusi.  

 

Ma quali sono le motivazioni che ci spingono a praticare attività fisica? 

 

Sicuramente in tenera età lo sport viene visto come strumento di benessere perché limita l’aumento di peso, previene malattie cardiovascolari e migliora la postura. Crescendo può capitare che da strumento di benessere diventi un mezzo per apparire al meglio agli occhi degli altri. Accade questo perché la società in cui viviamo è ossessionata dal culto del corpo e della bellezza ed una conseguenza è la ricerca della perfezione fisica. 

Oltre a praticare sport, perché spinti da motivazioni legate all’apparenza, all’aspetto fisico, troviamo anche un’altra forma di sportivi, “gli sport addicted”, che non sono spinti da fini estetici ma vivono lo sport come una vera droga. Nei paesi occidentali il numero di questi individui è in costante aumento. Purtroppo si parla ancora molto poco dei rischi conseguenti a questa dipendenza. Le conseguenze sono rintracciabili a livello fisico, psichico e sociale ma le persone interessate e i loro cari non riescono a cogliere certi comportamenti come disfunzionali in quanto la credenza comune è che l’attività fisica sia una pratica positiva.

Proviamo a vedere qui di seguito le ricadute nei diversi contesti di vita:

  • a livello sociale  queste persone dedicano più tempo possibile all’attività fisica trascurando le reazioni interpersonali; 
  • a livello lavorativo queste persone necessitano di maggiore tempo da dedicare agli allenamenti pertanto, quando possono, sacrificano anche il lavoro.

Per comprendere pienamente il fenomeno dobbiamo comunque analizzarlo a livello di motivazioni, attitudini ed emozioni presenti in ciascun sportivo. Vediamo infatti che vi sono 3 categorie:

  • Sani nevrotici  sono persone che utilizzano lo spot come “psicofarmaco”
  • Sportivi compulsivi l’attività fisica è un modo per loro per sostenere una precisa routine che conferisce un senso di controllo
  • Dipendenti dallo sport sono persone in cui lo sport domina la loro vita. Per loro ha la funzione di regolatore dell’umore.

Quest’ultima condizione è quella che può essere accostata ad una vera “dipendenza sportiva”.Spesso questi individui presentano in comorbidità altri disturbi mentali come il Disturbo Bipolare o disturbi di personalità. 

Bibliografia

G.Ferrari, V. Penati (2013). Psicologia e Sport. Dal benessere alla compulsione. Ed. Ferrari Sinibaldi. Milano

 

Fibromialgia: una malattia invisibile

Fibromialgia: una malattia invisibile

La fibromialgia (FM) è un disturbo caratterizzato da dolore muscolo-scheltrico diffuso e fatica cronici .

Questa condizione clinica colpisce circa il 2-3% della popolazione, nella maggior parte donne; la prevalenza aumenta con l’età ed è la terza condizione di dolore muscoloscheletrico più frequente.

I sintomi che spesso accompagnano il disturbo sono: fatica, disturbi cognitivi, sintomi somatici e psichiatrici multipli. L’eziologia e la patofisiologia della fibromialgia sono incerte: sembra essere una patologia legata alla regolazione cerebrale del dolore e le evidenze più recenti la classificano come sindrome della sensibilizzazione centrale.

Negli anni i criteri diagnostici per la fibromialgia hanno subito differenti cambiamenti e la maggiore difficoltà è ancora oggi costituita dall’assenza di un correlato organico definito e di esami strumentali utili. Nel 2019, in collaborazione con l’Organizzazione Mondiale della Sanità, un gruppo di lavoro dell’International Association for the Study of Pain (IASP) ha sviluppato un sistema di classificazione, incluso nell’ICD-11, dove è stata la FM è inserita come dolore primario cronico, per distinguerlo dal dolore secondario a una malattia sottostante.

 

Le cause della fibromialgia

Le cause e i processi patologici che conducono allo sviluppo della fibromialgia sono tutt’oggi scononsciuti, ma è ormai chiaro che l’eziologia è multifattoriale. Molti fattori quindi possono contribuire allo sviluppo di questa patologia, come:

  • predisposizione genetica
  • fattori emotivi (eventi di vita stressanti, tratti di personalità)
  • sensibilizzazione al dolore centrale (ridotta soglia del dolore)
  • disordini all’asse ipotalamo-ipofisi-surrene
  • anomalie del tono vegetativo
  • interazione dei disturbi del sonno come trigger del dolore
  • meccanismi infiammatori

 

Essendo una condizione clinica senza corrispettivo organico, purtroppo la fibromialgia rimane non diagnosticata nel 75% delle persone che ne soffrono. L’incertezza medica che contorna la fibromialgia, infatti, si traduce spesso in anni di sintomi, numerose visite, specialisti e approfondimenti prima di arrivare alla diagnosi, con conseguente carico psicologico negativo.

Sembra, invece, che ricevere una diagnosi sia molto d’aiuto per affrontare il disagio dovuto alla polisintomatologia, e intervenga nel ridurre dubbi e paure, che si pongono come i principali fattori psicologici amplificando il disturbo stesso. L’etichetta diagnostica, infatti, legittima i sintomi soggettivi, rassicurando. la persona e mettendola in condizione di far fronte alle proprie problematiche.

 

Dolore cronico e sensibilizzazione centrale

Il dolore è uno dei sintomi principali della fibromialgia ed è quindi verosimile che alla base di questa malattia vi sia un’anomala elaborazione del dolore a livello cerebrale.

Facendo un passo indietro, è necessario definire il dolore: esso infatti non è una mera manifestazione sensoriale, ma va considerato come unesperienza sensoriale ed emozionale spiacevole che può variare profondamente tra le persone; anche nello stesso individuo può assumere connotazioni differenti a seconda del contesto e del significato del dolore e dello stato psicologico della persona.

 

Nella fibromialgia, sembra effettivamente esserci un problema con l’elaborazione del dolore nel cervello. I pazienti spesso diventano ipersensibili alla percezione del dolore (iperalgesia). La costante ipervigilanza del dolore è anche associata a numerosi problemi psicologici. Le anomalie osservate nella fibromialgia includono:

  • livelli elevati dei neurotrasmettitori eccitatori come il glutammato e la sostanza P
  • diminuzione dei livelli di serotonina e norepinefrina nelle vie discendenti anti-nocicettive nel midollo spinale
  • miglioramento prolungato delle sensazioni di dolore
  • disregolazione della dopamina
  • alterazione dell’attività degli oppioidi endogeni cerebrali.

 

I sintomi

I sintomi cardine della fibromialgia sono:

  • dolore cronico diffuso: il dolore nella fibromialgia è diffuso bilateralmente in tutto il corpo, coinvolge spesso i muscoli ma anche le giunture
  • fatica cronica: associata al risveglio, a sonno leggero e alla difficoltà a intraprendere attività anche minime, ma può essere peggiorata anche dall’inattività prolungata

Altri disturbi comunemente presenti nelle persone fibromialgiche possono essere:

  • disturbi cognitivi: spesso viene riferita la “fibro fog“, ossia una condizione di difficoltà attentiva e nello svolgere compiti che richiedono velocità di pensiero
  • difficoltà psicologiche: al momento della diagnosi dal 30 al 50% delle persone presenta ansia o depressione
  • mal di testa
  • parestesie a entrambe le braccia o le gambe
  • sindrome dell’intestino irritabile, reflusso gastroesofageo e altri disturbi gastrointestinali
  • altri sintomi: secchezza degli occhi, dispnea, disfagia e palpitazioni.

Il trattamento

Il trattamento dovrebbe essere multimodale e costruito su quattro pilastri (educazione del paziente, fitness, farmacoterapia e psicoterapia); l’approccio dovrebbe essere individualizzato, basato sui sintomi e graduale, stabilendo obiettivi condivisi con il paziente.

  • Psico-educazione: il paziente con fibromialgia va prima di tutto rassicurato sul fatto che la sua patologia è reale. Inoltre è fondamentale  soffermarsi sui correlati psicologici e sulla necessità del loro trattamento e sull’igiene del sonno
  • Fitness: è raccomandato esercizio aerobico almeno tre volte a settimana per 30 minuti, ion quanto migliora dolore e sonno
  • Trattamento farmacologico: i farmaci utilizzati nel trattamento della fibromialgia sono prevalentemente antidepressivi e anticonvulsivi
  • Trattamento per sintomi persistenti: in alcune persone la sintomatologia non migliora nonostante i trattamenti descritti sopra; in questi casi, è utile considerare la somministrazione di terapie farmacologiche multiple, la fisioterapia e la psicoterapia

Non si hanno chiare evidenze di efficacia per la somministrazione di farmaci antidolorifici e anti-infiammatori e di terapie complementari e alternative come agopuntura, yoga, tai chi, cure termali, elettrostimolazione, ecc. Molte persone, però, in assenza di risultati positivi legati ai trattamenti tradizionali ricorrono comunque a questo tipo di approcci.

I correlati psicologici

Al momento della diagnosi, dal 30% al 50% dei pazienti presenta anche difficoltà di tipo psicologico come ansia e depressione, e sono frequenti i disturbi del sonno.

Alcune ricerche hanno provato a identificare tratti di personalità specifici o condizioni psichiatriche associate alla fibromialgia, ma i risultati sono ancora poco chiari, anche se sembra esserci maggiore manifestazione di alessitimia e di disturbi di personalità ossessivo-compulsivi, evitanti, istrionici e borderline.

Assumono quindi importanza fondamentale l’incoraggiamento alla psicoterapia e la promozione di una buona igiene del sonno.

In effetti vi sono numerosi interventi che hanno mostrato risultati favorevoli come gli approcci cognitivo comportamentali, le terapie psicoeducative e mente-corpo.

Il beneficio che le persone fibromialgiche possono trarre dalla psicoterapia non è solo legato all’affrontare le problematiche emotive direttamente o indirettamente legate alla loro malattia, ma anche per gestire il dolore fisico, sintomo frequente e dirompente che caratterizza la fibromialgia. In effetti, sembrerebbe che il risultato migliore della psicoterapia sia la diminuzione del dolore.

 

Bibliografia

Bhargava, J., & Hurley, J. A. (2019). Fibromyalgia. StatPearls [Internet].

Bushnell, M. C., Čeko, M., & Low, L. A. (2013). Cognitive and emotional control of pain and its disruption in chronic pain. Nature Reviews Neuroscience14(7), 502-511.

Gomez-de-Regil, L., & Estrella-Castillo, D. F. (2020). Psychotherapy for Physical Pain in Patients with Fibromyalgia: A Systematic Review. Pain Research and Management2020.

Häuser, W., Sarzi-Puttini, P., & Fitzcharles, M. A. (2019). Fibromyalgia syndrome: under-, over-and misdiagnosis. Clin Exp Rheumatol37(Suppl 116), 90-7.

Maffei, M. E. (2020). Fibromyalgia: Recent advances in diagnosis, classification, pharmacotherapy and alternative remedies. International Journal of Molecular Sciences21(21), 7877.

Sarzi-Puttini, P., Giorgi, V., Marotto, D., & Atzeni, F. (2020). Fibromyalgia: an update on clinical characteristics, aetiopathogenesis and treatment. Nature Reviews Rheumatology16(11), 645-660.

L’endimetriosi e le sue conseguenze psicologiche

L’endimetriosi e le sue conseguenze psicologiche

L’endometriosi è una patologia cronica e debilitante che colpisce circa il 10% delle donne e si manifesta con l’accumulo di cellule endometriali al di fuori dall’utero. L’eziopatogenesi dell’endometriosi è complessa e, seppur non è ancora del tutto chiara, sembra coinvolgere fattori genetici, infiammatori e nervosi (legati alla sensitivizzazione periferica).

Un grave problema, inoltre, riguarda il ritardo delle donne nell’arrivare a una diagnosi corretta, in quanto purtroppo molto spesso il dolore femminile viene sottovalutato anche in ambito medico.

Ad oggi, non esiste un trattamento risolutivo per questa patologia, ma è possibile intervenire chirurgicamente e sullo stile di vita per migliorare la condizione clinica delle pazienti.

Vediamo più nello specifico di cosa si tratta

 

Che cos’è l’endometriosi

I sintomi principali associati all’endometriosi sono l’infertilità/subfertilità, la fatica cronica e il dolore, che può assumere differenti forme:

  • dolore pelvico cronico
  • dismenorrea: dolori associati al ciclo mestruale
  • dispaurenia: dolore all’inizio dell’atto sessuale o di qualsiasi attività sessuale che implica la penetrazione
  • disuria: difficoltà o dolore nell’emissione di urina
  • dischezia: difficoltà o dolore nella defecazione

 

Questi sintomi, che si manifestano più intensamente nel periodo mestruale, premestruale e durante l’ovulazione, hanno un importante impatto negativo sulla qualità di vita delle persone che ne sono affette.

Per chi soffre di endometriosi, inoltre, c ‘è un alto rischio di recidiva (dal 20 al 50% dei casi) entro i 5 anni dal trattamento.

 

Trattamenti possibili

Esistono numerose strategie terapeutiche per trattare l’endometriosi, come chirurgia, terapie ormonali e farmaci antinfiammatori non steroidei. Tuttavia, l’efficacia dei trattamenti medici convenzionali è limitata o intermittente nella maggior parte dei pazienti a causa degli effetti collaterali associati.

I trattamenti vanno modulati a seconda che il disturbo principale sia il dolore o la subfertilità. Entrambi i sintomi possono essere trattati attraverso i farmaci o il trattamento chirurgico. L’obiettivo principale del trattamento chirurgico o ormonale è la rimozione dei depositi endometriali, con conseguente riduzione del dolore e aumento delle possibilità riproduttive.

Secondo una review Cochrane del 2014, la soppressione del ciclo mestruale e il trattamento laparoscopico possono avere effetti benefici sul dolore. Non ci sono invece cure mediche consigliate per migliorare fertilità naturale nelle donne con endometriosi.

 

La riabilitazione del pavimento pelvico

Per le persone che soffrono di endometriosi, l’ostetrica può essere un’alleata importante per combattere il dolore pelvico cronico, uno dei sintomi più invalidanti di questa patologia.
Se il dolore non viene trattato, infatti, andrà ad aggravarsi e a peggiorare la salute fisica, psicologica e relazionale della persona. In particolare, possono esserci conseguenze negative nell’ambito della sessualità.
L’ostetrica interviene nella lotta contro il dolore pelvico attraverso la cosiddetta “ginnastica del pavimento pelvico”. Questo termine in realtà è riduttivo, in quanto si tratta di una vera e propria riabilitazione, che avviene dopo una valutazione funzionale e dopo l’impostazione di un intervento terapeutico che si avvale di molti strumenti.
Per saperne di più, consigliamo il blog di Associazione Progetto Endometriosi  (link in sotografia).

 

Conseguenze psicologiche 

 

La letteratura recente ha mostrato che l’endometriosi influisce negativamente sul benessere psicologico di chi ne è affetto e sulla qualità di vita. In particolare, è possibile osservarne le conseguenze sia sull’attività lavorativa sia sulla vita privata. I frequenti dolori associati al ciclo mestruale, infatti, portano spesso la persona ad assentarsi dal lavoro, con conseguenze negative sulla produttività, sui rapporti con superiori e colleghi e sulla soddisfazione lavorativa.

A livello relazionale, si osservano maggiori difficoltà sia nella donna sia nel partner a livello sessuale, a causa del dolore pelvico. Per questo tipo di problemi, sembra che gli interventi multimodali, che integrano la presa in carico psico-sessuologica e biomedica e che si rivolgono sia all’individuo sia alla coppia siano i più efficaci.

I risultati di una recente narrative review hanno suggerito che la principale fonte di stress è identificata nel dolore. Chi ne soffre in modo più intensi, infatti, ha una maggior tendenza a reprimere le proprie emozioni, a catastrofizzare e avere uno stile di coping passivo.

Sebbene ci siano delle manifestazioni psicopatologiche più comuni, è chiaro che una patologia come l’endometriosi assume senso se la comprendiamo alla luce della storia personale della persona, e soprattutto dei suoi progetti di vita.

Per esempio, poiché tale patologia è legata al rischio di infertilità, una grande differenza è data dal progetto o meno della donna di diventare madre. In linea di principio, anche se la paziente non ha mai considerato questa opzione, probabilmente trovarsi di fronte a questa opzione farà avvertire una chiusura di possibilità di azione, con conseguente vissuto di tipo depressivo.

Secondo la Fondazione Italiana Endometriosi, inoltre, uno dei sintomi comuni per le donne con endometriosi è la sensazione di “mente offuscata”, cioè confusione, scarsa memoria e difficoltà di messa a fuoco.

Bibliografia

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Sitografia

Fondazione Italiana Endometriosi

A.P.E. Associazione Progetto Endometriosi

 

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