Prendersi cura del familiare con SLA: il caregiver

Prendersi cura del familiare con SLA: il caregiver

Da qualche settimana si è sentito parlare tanto (più del solito!) di caregiver, cioè della persona che si prende cura di un familiare malato o disabile a causa del fatto che un noto politico, parlando dei diritti ai vaccini, ha scambiato questo termine con cargiver (!!!).

Vediamo più nello specifico chi è il caregiver, con particolare attenzione a chi si prende cura della persona affetta da SLA.

 

Chi è il caregiver

Tecnicamente, il caregiver è chi si prende cura di un’altra persona, sia a livello professionale sia familiare.

Quando si parla di caregiver familiare, si intende una persona che si prende cura di un familiare malato, disabile o minore.

In Italia, secondo alcune stime Istat, il 10,8% del lavoro non retribuito svolto dalle persone con più di 15 anni riguarda il prendersi cura di bambini e/o adulti conviventi. Per la maggior parte, lo svolgimento di questo tipo di incombenza spetta alle donne, con grandi dislivelli nelle possibilità di indipendenza e di avanzamento di carriera fuori dalle mura domestiche.

Spesso su questo blog ci siamo occupate di chi si prende cura della persona con demenza, ma questo articolo vuole focalizzarsi su un cargiving differente, ed è stato ispirato dal 6° Talk con Stefania Piscopo (in foto), che si è svolto giovedì 22 aprile sulla nostra pagina Facebook.

La Sclerosi Laterale Amiotrofica (SLA)

La sclerosi laterale amiotrofica (SLA) è una malattia neurodegenerativa a prognosi infausta, le cui cause sono attualmente sconosciute. Il sintomo principale è la perdita dei motoneuroni spinali, bulbari e corticali, che causa gravi limitazioni nel funzionamento quotidiano, fino ad arrivare alla completa paralisi.

Attualmente, in Italia, si stima che ci siano più di 6000 persone affette da SLA, sebbene l’incidenza sia in aumento negli ultimi anni grazie al miglioramento del processo diagnostico.

Dal 30 al 50% dei pazienti, oltre ai sintomi motori sviluppa disturbi cognitivi, che in una piccola percentuale possono essere meglio spiegati dall’insorgenza della Demenza Fronto-Temporale.

Con il progredire della malattia, quindi la persona ha sempre più bisogno di cure, che nella maggior parte dei casi sono fornite appunto da un caregiver informale.

 

Il caregiver della persona con SLA

Per la sua caratteristica principale di limitazione della mobilità della persona, prendersi cura di un paziente con SLA si configura come un compito impegnativo.

Il caregiver, infatti, si trova ad affrontare numero si compiti assistenziali per i quali spesso non è preparato, come supportare il proprio caro progressivamente in tutte le attività quotidiane come lavarsi, mangiare, spostarsi.

Inoltre, spesso, è necessario fare i conti con numerose preoccupazioni per il futuro della persona cara, l’aumento delle responsabilità assistenziali e  dei propri sensi di colpa quando si ha la sensazione di non fare abbastanza.

 

Il caregiver burden

Come accade per il caregiver della persona con demenza, anche il familiare che assiste il malato di SLA può soffrire di caregiver burden.

Questa condizione indica il carico fisico ed emotivo legato alla cura di un proprio caro malato, ed è spesso associato all’assistenza delle persone con patologie croniche e degenerative. Il burden viene quindi sperimentato come un peggioramento del proprio stato di salute emotiva, fisica e come un restringimento delle proprie possibilità esistenziali, sia per l’impossibilità di una vita sociale appagante, sia per la rinuncia, spesso, ad attività lavorative, che conduce a un peggioramento dello status economico della famiglia.

In particolare, alcuni fattori relativi allo stato del paziente sembrerebbero legati alla maggiore probabilità di sperimentare caregiver burden:

  • Presenza di disturbi comportamentali: apatia e disinibizione sono disturbi frequenti nel pazienti con SLA, soprattutto nella percentuale che sviluppa Demenza Fronto-Temporale (FTD).
  • Livello di funzionamento fisico: al peggioramento delle abilità fisiche e dell’indipendenza cresce parallelamente il grado di carico psico-fisico sperimentato dal caregiver.
  • Sentimenti depressivi: i caregiver che sperimentano sintomi depressivi hanno. maggiori probabilità di incorrere in un più grave caregiver burden.

Il legame tra benessere del malato e quello del caregiver

 

La letteratura più recente mostra come il benessere psico-fisico del caregiver sia strettamente legato a un miglioramento dello stato del suo assistito. Spesso, questo non è una conseguenza diretta, ma un effetto cascata: un caregiver più sano a livello psico-fisico, infatti, avrà maggiori energie per prendersi cura del proprio caro, sperimentando probabilmente un maggiore senso di autoefficacia nello svolgimento delle attività quotidiane. A sua volta, questo stato di cose influisce positivamente sia sull’emotività, sia sullo stato fisico del malato.

Appare, quindi, sempre più chiaramente la necessità di prendersi cura di chi si prende cura.

 

 

Mi manca la tua voce: da infermiera a caregiver contro la SLA

Come accennavamo sopra, questo articolo è stato ispirato dalla chiacchierata con Stefania Piscopo, infermiera e autrice del libro “Mi manca la tua voce: da infermiera a caregiver contro la SLA“. Il libro, edito da La Memoria del Mondo di Magenta, parla della storia di Stefania nella sua trasformazione da figlia e infermiera a caregiver.

Con la sua doppia prospettiva, sia da operatrice sanitaria sia da caregiver familiare, Stefania nell’intervista durante il Talk ci ha portate a comprendere la grande differenza tra questi ruoli, e le difficoltà non solo legate all’assistenza pratica della persona malata, ma anche a tutto il mondo retrostante, fatto di fatiche emotive, sofferenze, pratiche amministrative, burocrazia e cambiamenti ambientali.

Stefania ci ha anche parlato del valore che ha avuto per lei il raccontarsi, e le nuove prospettive di vita che il libro le ha aperto.

Insomma, una lettura emozionante, che consigliamo vivamente, anche perché il ricavato del libro serve per sostenere l’Hospice di Abbiategrasso.

 

Bibliografia

de Wit, J., Bakker, L. A., van Groenestijn, A. C., van den Berg, L. H., Schröder, C. D., Visser-Meily, J. M., & Beelen, A. (2018). Caregiver burden in amyotrophic lateral sclerosis: a systematic review. Palliative medicine32(1), 231-245.

Longinetti, E., & Fang, F. (2019). Epidemiology of amyotrophic lateral sclerosis: an update of recent literature. Current opinion in neurology32(5), 771.

La scrittura terapeutica

La scrittura terapeutica

La scrittura ha una valenza terapeutica nel momento in cui ci si sofferma a descrivere vissuti particolari della propria vita; quando dunque si parla di emozioni e di sentimenti profondi. 

La letteratura scientifica negli ultimi 20 anni si è interessata alla dimostrazione degli effetti benefici della scrittura sulla salute fisica e psichica. Nel 2005 venne condotto uno studio sulla scrittura espressiva su un campione di studenti universitari. Ad un gruppo di loro fu assegnato il compito di scrivere per 15 minuti al giorno per 4 giorni consecutivi quelle che reputavano le esperienze più traumatiche della loro vita. Al gruppo di controllo venne invece chiesto di parlare di argomenti superficiali. 

I partecipanti che raccontarono di pensieri e sentimenti più profondi riportarono benefici significativi nell’immediato e anche a distanza di 4 mesi, rispetto a coloro che trattarono tematiche  generiche. Gli autori conclusero che scrivere di precedenti esperienze traumatiche comportasse due benefici:

  • un miglioramento immediato del benessere percepito
  • una diminuzione dei problemi di salute a distanza di tempo

La scrittura può essere quindi se la consideriamo come un modo di aver cura di noi, nel momento in cui poniamo attenzione ai nostri disagi e siamo in ascolto di noi stessi. Un esempio a riguardo è la medicina narrativa in grado di portare importanti benefici sia al paziente sia a chi se ne prende cura. 

 

La medicina narrativa

In medicina esiste una metodologia di intervento clinico assistenziale basata sulle competenze comunicative: la medicina narrativa (NBM). Il presupposto è quello di creare uno strumento in grado di comprendere e integrare le diverse narrazioni di quanti si prendono cura del malato.  Lo scopo è quello di offrire un percorso di cura il più personalizzato possibile. Questo approccio si integra con la medicina basata sull’evidenza (EBM) con il fine di rendere le decisioni clinico assistenziali più appropriate ed efficaci. 

Ma quali sono le caratteristiche della NBM?

  •  Il malato non viene visto come un semplice corpo da curare; viene dato ampio spazio alla sua storia personale che come tale è unica e irripetibile;
  •  Il personale sanitario, attorno alla persona, crea dunque una narrazione legata alla personale esperienza di malattia del paziente. Cosi facendo prende forma una narrazione condivisa non solo tra medici, infermieri ma anche tra malato e le persone a lui care;
  •  Attraverso la medicina narrativa il personale sanitario è quindi in grado non solo di curare la malattia ma anche di lavorare sulle emozioni, paure e speranze vissute dal paziente, che attraversa il suo personale percorso di sofferenza.

 

Bibliografia

Baikie, K. A., & Wilhelm, K. (2005). Emotional and physical health benefits of expressive writing. Advances in psychiatric treatment, 11(5), 338-346

Neuropsicologia e perdita di udito

Neuropsicologia e perdita di udito

Il cambiamento della popolazione

Negli ultimi decenni, la struttura demografica della popolazione italiana si è profondamente modificata a causa di fattori di estrema rilevanza quali la diminuzione della fecondità, l’aumento  dell’aspettativa di vita e l’invecchiamento della popolazione (ISTAT, 2014).

Poiché l’invecchiamento rappresenta il primario fattore di rischio per lo sviluppo sia di patologie neurodegenerative (Solfrizzi et al., 2002; Kivipelto et al., 2006), sia della presbiacusia appare evidente la necessità di intervenire precocemente in ottica preventiva, se non per arrestare perlomeno per ritardare l’esordio di tali quadri clinici, ottenendo un grosso guadagno in termini sociali ed economici.

 

La riserva cognitiva come fattore preventivo

La Lancet Commission (Livingston et al., 2017; Livingston et al., 2020) sottolinea come tra i fattori protettivi debba essere considerato l’implemento, nel corso di tutta la vita dell’individuo, della riserva  cognitiva.

È stato infatti osservato come alcuni pazienti che mostravano a livello neuropatologico segni di Malattia di Alzheimer, non manifestassero i sintomi clinici della patologia (Sonnen et  al., 2011): questo dato evidenzia come la costruzione di riserva cognitiva durante le fasi  precoci della vita possa produrre maggiore resilienza cognitiva e ritardare lo sviluppo di  patologie dementigene in tarda età.

Tra gli interventi che concorrono a sviluppare una buona riserva cognitiva è possibile annoverare gli stimoli sociali e cognitivi, l’educazione e un buon livello socio-economico e la preservazione di un buon udito. Nonostante per l’attuazione di una completa prevenzione dalle demenze sia necessario agire durante tutto il corso della vita, è ormai assodato che la partecipazione anche da anziani ad attività cognitive, sociali e fisiche moduli la riserva cognitiva, migliorando le abilità  cognitive (Fratiglioni et al., 2004).

 

Ipoacusia come fattore di rischio

Si stima che in Italia circa 1 persona su 6 soffra di qualche tipo di perdita uditiva, e che molte di esse non siano trattate. Se consideriamo le funzioni cognitive come processi che coinvolgono tutti gli aspetti della percezione, del pensiero e del ragionamento è immediata la comprensione della correlazione tra la perdita uditiva e il cambiamento di alcune attività cerebrali.

Per quanto riguarda in particolare la popolazione anziana, la perdita di udito sembra avere tre principali impatti: l’aumento del carico  cognitivo, l’impatto sulle strutture e funzioni cerebrali e l’isolamento sociale e conseguente  sintomatologia depressiva (Huang et al., 2010; Bernabei et al., 2014).

È ancora oggetto di studio se l’utilizzo di protesi acustiche possa mitigare l’effetto dell’ipoacusia sullo sviluppo di deficit cognitivi. Migliorare la prestazione uditiva, infatti, non sembra avere effetti sulle abilità cognitive di individui con demenza (Allen et al.,  2003). Al contrario, però, la neuroplasticità sembra essere un elemento fondamentale al  fine di ottenere un buon recupero uditivo e alcuni studi epidemiologici hanno mostrato un effetto apparentemente protettivo dato dall’utilizzo delle protesi (Merabet & Pascual-Leo ne, 2010; Lin et al., 2014b).  

Appare chiaro quindi come il mero suggerimento di una protesi acustica, anche quando utilizzata adeguatamente, non sia risolutivo, e come ci sia necessità di un intervento più complesso e multidisciplinare. Solo una minoranza delle persone ipoacusiche è infatti correttamente diagnosticato, e anche nel caso  vengano loro prescritti, molto spesso gli apparecchi acustici non vengono adeguatamente utilizzati (Davis et al., 2007).

 

Il lavoro cognitivo nell’anziano ipoacusico

 

La perdita uditiva è ancora percepita da molti come un processo inestricabilmente legato all’invecchiamento. Tale stigma ricorda molto quello relativo alla perdita di memoria, ed entrambi devono essere combattuti come falsi miti legati a una visione dell’invecchiamento non coerente con l’epoca post-moderna.

Nell’anziano ipoacusico sono evidenti alcuni cambiamenti del funzionamento cognitivo, soprattutto negli aspetti legati alle capacità esecutive. Viste le numerose ricerche che attestano la presenza di neurogenesi anche in età avanzata, è verosimile ipotizzare che supportare la protesizzazione acustica con un lavoro cognitivo, attuando quindi un approccio integrato al benessere della persona, possa condurre a un miglioramento dei risultati.

Psicologia, sistema immunitario e benessere

Psicologia, sistema immunitario e benessere

La maggior parte delle persone ritiene che la salute del corpo sia una questione interamente fisica e che sia esclusivamente determinata da fattori come la genetica. In realtà un elemento fondamentale della salute sono le abitudini che ci permettono di esercitare o meno un controllo sulla nostra salute. 

Il modo in cui pensiamo, ad esempio, cambia lo stato di salute. Accade questo perché mettiamo in atto una serie di comportamenti volti al miglioramento delle nostre condizioni fisiche, come:

  •  adottare adeguate abitudini alimentari;
  • fare esercizio fisico;
  • sottoporsi a controlli medici preventivi.
Il ruolo della psiche sul sistema immunitario 

Coloro che considerano il sistema immunitario indipendente dagli stati psicologici, dubitano che questi possano in qualche modo esercitare un’azione sul sistema immunitario. In realtà il sistema immunitario è connesso al cervello e gli stati mentali, come quelli legati alla speranza, corrispondono a stati cerebrali che andranno poi ad influenzare il benessere del corpo. 

Il cervello e il sistema immunitario sono dunque connessi non solo attraverso i nervi ma anche attraverso gli ormoni. Vi sono valide prove empiriche del fatto che quando una persona è depressa avvengono delle modificazioni a livello cerebrale. I neurotrasmettitori possono diminuire l’attività; ad esempio durante la depressione una specifica serie di trasmettitori, le catecolamine, declina. A questo si aggiunge un’iperattivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene con conseguente aumento del cortisolo nel sangue. 

Pertanto lo stato psicologico può modificare l’attività del sistema immunitario cosa che può portare, nel corso della vita, ad un deterioramento dello stato di salute fisica in chi tende ad essere pessimista. 

Bibliografia

G.F. Goldwurm, F. Colombo. Psicologia positiva. Applicazioni per il benessere. 2010, Ed.Erickson.

Lo stalking

Lo stalking

Il termine stalking (dal verbo inglese to stalk: pedinare, seguire, braccare) si riferisce a un insieme di comportamenti persecutori messi in atto da una persona nei confronti di un’altra che generano forti stati d’ansia e paura fino a compromettere la sua quotidianità.
Tra i comportamenti adottati dagli stalker troviamo:

  • Comunicare continuamente mediante telefono, sms, lettere, mail a qualsiasi orario
  • Lasciare messaggi sui social network, oppure sull’automobile, porta di casa, luogo di lavoro
  • Pedinare la vittima
  • Diffamare o oltraggiare direttamente la vittima
  • Danneggiare le proprietà della vittima
  • Minacciare direttamente la vittima e le persone ad essa vicine

Le vittime di stalking si trovano a vivere in un clima di paura e angoscia che può anche impedire la denuncia del reato per timore di ulteriori ripercussioni.

Dal punto di vista psicologico, i sintomi più comunemente riportati dalle vittime di #stalking sono paura, ansia, rabbia, sensi di colpa, vergogna, disturbi del sonno, reazioni depressive con sensazioni di impotenza, disperazione, paura e comparsa di ideazione suicidaria. Sul piano della salute fisica si riscontrano invece disturbi dell’appetito, abuso di alcool, insonnia, nausea e aumento nel consumo di sigarette.

Il numero di pubblica utilità 1522  è attivo 24 ore su 24, tutti i giorni dell’anno ed è accessibile dall’intero territorio nazionale gratuitamente, sia da rete fissa che mobile. L’accoglienza è disponibile nelle lingue italiano, inglese, francese, spagnolo e arabo. Le operatrici telefoniche dedicate al servizio forniscono una prima risposta ai bisogni delle vittime di violenza di genere e stalking, offrendo informazioni utili e un orientamento verso i servizi socio-sanitari pubblici e privati presenti sul territorio nazionale. Il 1522, attraverso il supporto alle vittime, sostiene l’emersione della domanda di aiuto, con assoluta garanzia di anonimato. I casi di violenza che rivestono carattere di emergenza vengono accolti con una specifica procedura tecnico-operativa condivisa con le Forze dell’Ordine.

 

NEPSI: la nostra storia

NEPSI: la nostra storia

NEPSI nasce nel febbraio 2017 dall’idea di tre psicologhe (Monica Bianchera, Irene Ferrario e Simona Mennuni), con l’obiettivo di divulgare sui social argomenti relativi alla neuropsicologia e alla psicoterapia.

 

La nostra storia

 

Ci siamo conosciute frequentando insieme la scuola di specializzazione in psicoterapia (SLOP – Scuola Lombarda di Psicoterapia). Durante i quattro anni, i lunghi viaggi in macchina per arrivare a lezione ci hanno permesso di consolidare il nostro rapporto, condividendo idee, progetti e prospettive di lavoro (oltre che innumerevoli esperienze personali 😄)

Da questi viaggi in macchina è nato anche il progetto di iniziare a lavorare insieme a Milano, in un momento in cui ognuna di noi stava cercando di iniziare la propria attività lavorativa o di darle una nuova luce. Inizialmente, infatti, l’obiettivo del nostro progetto era la costituzione di una sede di lavoro unica per NEPSI, in cui lavorare in team in presenza. Un vero e proprio centro clinico dove occuparsi di neuropsicologia in tutte le sue sfaccettature clinche.

Non tutto però va come si è programmato (a volte per fortuna 😅) e nel tempo abbiamo in realtà differenziato le nostre attività, lavorando territorialmente in luoghi diversi, e con tipologie di persone diverse, su progetti differenti, cogliendo le opportunità che ci siamo create e che ci sono capitate.

È rimasta però la voglia di condividere il progetto di NEPSI, che infine è diventato un gruppo di lavoro dislocato in varie zone della Lombardia (Milano, Mantova, Corbetta), ma in cui si condividono attività cliniche e di ricerca e progetti, con una base di competenze comune ma ulteriori interessi e peculiarità per ognuna di noi.

Lo sforzo comune sui nostri spazi social e sul nostro sito è quello di fare una buona divulgazione scientifica sui temi legati alla nostra professione e quindi alla neuropsicologia, alle neuroscienze, alla psicologia e alla psicoterapia.

 

 

Nuove prospettive: formazione e supervisione

 

Nel 2020, in concomitanza con la pandemia è nata per noi una nuova avventura: la formazione online rivolta ad altri professionisti sanitari.

Sfruttando le nostre competenze, abbiamo infatti strutturato una serie di corsi online che va man mano ampliandosi, coinvolgendo nuove figure professionali esperte nella neuropsicologia a vari livelli.

Iniziando a svolgere i corsi di formazione e venendo a contatto con altre psicologhe, ci siamo inoltre accorte di un’enorme mancanza: le supervisioni in ambito neuropsicologico. L’ambito della neuropsicologia, infatti, nella nostra ottica non è da intendersi come una mera applicazione di conoscenze e di tecniche riabilitative. È invece sempre necessario prendere in considerazione l’individualità della persona, nelle sue caratteristiche psicologiche e nella sua storia familiare. Fondamentale è inoltre la presa in carico del caregiver e della famiglia.

Spesso però nella nostra esperienza professionale, soprattutto agli inizi, ci siamo trovate sole, in quanto non è frequente l’abitudine di portare in supervisione da colleghi più esperti i casi di neuropsicologia. Da qui, la nostra nuova offerta!

 

L’attività clinica

 

Per quanto riguarda l’attività clinica, nei nostri studi ci occupiamo dell’ambito della neuropsicologia, offrendo interventi di stimolazione/riabilitazione cognitiva alle persone colpite da danno neurologico acuto, alle persone affette da patologie psichiatriche e a quelle colpite da malattie neurodegenerative.

Ci interessiamo inoltre della prevenzione del declino cognitivo proponendo percorsi di gruppo rivolti agli anziani sani.

Altra attività clinica è quella di psicoterapia, che si concretizza con un approccio comune in cui la persona che arriva alla nostra attenzione viene presa in carico cercando di coglierne l’individualità e le specificità, piuttosto che ridurla a un insieme di sintomi o a un’etichetta diagnostica.

 

 

Per saperne di più, segui le nostre pagine social: Facebook, Instagram e LinkedIn

Iscriviti alla nostra newsletter mensile, a questo link

Oppure contattaci all’indirizzo: info@nepsi.it

Privacy Policy