Ludopatia. Quando in gioco c’è la salute

Ludopatia. Quando in gioco c’è la salute

Storicamente il gioco tra gli adulti in varie forme ha permeato e caratterizzato ogni cultura. Gli archeologi hanno rinvenuto dadi primitivi in caverne datate al 3.500 a.C. Lo stesso termine “azzardo” sembra risalire alla parola araba az-zahr, dal significato di dado. Il gioco d’azzardo ha dunque una storia antica quanto l’uomo e normalmente ha una finalità ludico-ricreativa tuttavia per alcune persone può diventare un vero e proprio disturbo psichico e come tale evolvere in una vera e propria dipendenza. 

Come viene definito il gioco d’azzardo dall’Organizzazione Mondiale della Sanità?

L’OMS definisce il gioco d’azzardo patologico, (oggi denominato Disturbo da gioco d’azzardo – DGA), come una condizione patologica chiaramente identificabile, che in assenza di misure idonee di informazione e prevenzione può rappresentare, a causa della sua diffusione, un’autentica malattia sociale. In Italia vi sono 1,300.000 ludopati ma solo 12.000 sono in terapia. Nel 2018 il numero delle puntate registrate in Italia ha sfiorato i 107 miliardi (con un aumento del 3% rispetto all’anno precedente). 

 

Come mail il giocatore patologico non smette mai di giocare?

 

Definire le cause e le motivazioni che spingono il giocatore patologico è quanto mai arduo perché esistono differenti fenotipi di giocatore; vi sono alcuni pazienti che sono veri e proprio cercatori di emozioni definiti “sensation seekers” e la loro propensione è quella di ricercare novità e stimoli eccitanti, altri invece più di stampo compulsivo, vivono con maggiore moderazione l’esperienza del gioco che tuttavia rappresenta per gli stessi il vero centro della loro esistenza.
I risultati di alcuni studi di neuroimaging hanno permesso di evidenziare come i gamblers (giocatori) presentino alterazioni a carico di specifiche aree cerebrali rispetto agli individui sani di controllo. Nei giocatori infatti risultano alterati il sistema della gratificazione e della ricompensa che portano l’individuo a giocare compulsivamente e senza controllo.

Studi sui gamblers rilevano un’alterazione di alcuni circuiti cerebrali. Vediamo più da vicino i circuiti della serotonina e della dopamina:

la serotonina è un neurotrasmettitore coinvolto in diversi processi motivazionali come la fame, il sonno e la sessualità, che assume una funzione inibitoria nel sistema nervoso centrale. Nei giocatori patologici vi è una sottoregolazione del sistema serotoninergico che comporta una compromissione dei processi di inibizione e gratificazione. L’aspetto complementare alla conseguente disinibizione è quello di un’aumentata spinta motivazionale verso il comportamento d’abuso, denominata craving. 

la dopamina è un neurotrasmettirore centrale anch’esso nei circuiti legati alla motivazione e ricompensa sia fisiologica come la fame, il buon cibo e il sesso che artificiali, mediati dalle sostanze stupefacenti o da un comportamento maladattivo come il gioco d’azzardo nella dimensione patologica. E’ stato rilevato che il gioco d’azzardo sia in grado di stimolare il rilascio della dopamina nel nucleus accumbens. Ripetute esperienze di gioco d’azzardo possono sensibilizzare i neuroni di tale regione facilitandone l’attivazione anche in risposta a stimoli connessi solo in maniera indiretta all’esperienza del gioco, ad esempio la vista di luoghi o di oggetti connessi ad esso. 

 

Quali sono i numeri quando parliamo di minori e di gioco d’azzardo?

 

In un articolo comparso sul Daily Telegraph emerge come le grandi multinazionali del web cerchino di attrarre l’attenzione dei più piccoli (anche bambini di soli 4 anni) attraverso della applicazioni nelle quali si insinua il gioco d’azzardo. All’inizio tutti i giochi sono gratis ma successivamente più si accumulano punti più viene richiesto un acquisto in denaro.

Le ultime ricerche di Telefono Azzurro ed Eurispes denunciano che l’8% di bambini tra i 6 e gli 11 anni gioca d’azzardo. Numeri ancora più preoccupanti arrivano dall’indagine sulla ludopatia under 18 condotta dall’Osservatorio Nazionale sulla salute dell’infanzia e dell’adolescenza: il 25% dei bambini tra i 7 e i 9 anni ha usato la paghetta per lotterie e gratta-e-vinci. La stima finale è di un milione e 200mila minorenni italiani in balìa del gioco d’azzardo. 

Qual è il ruolo degli adulti riguardo questa tematica?

 

Sembrerebbe che un genitore su tre ignori le abitudini dei propri figli o sottovaluti il fenomeno. Che cosa fare dunque per contrastare l’emergere di questo fenomeno? Il primo passo è agire in ambito preventivo con gli adulti :

bisogna parlare di ludopatia in modo che tutti capiscano che cosa sia. Il 90% dei genitori infatti non sa che cosa significhi questo termine, eppure a uno su due è capitato che il figlio volesse giocare;

bisogna descrivere i danni fisici del gioco d’azzardo sui minorenni. Studi neurologici e risonanze magnetiche su soggetti ludopatici hanno dimostrato che la dipendenza dal gioco provoca un cambiamento della corteccia celebrale e diminuisce i freni inibitori rispetto a persone senza dipendenze.

Bisogna dunque in primis aiutare i più grandi affinché diano il buon esempio ai più piccoli e poi è fondamentale educare i bambini alla gestione e al valore del denaro. Inoltre bisogna spiegare loro che sono giochi in cui quasi sempre si perde e stimolarli a passare il tempo in attività ricreative come il gioco sano e lo sport.

 

Il problema del gioco d’azzardo patologico riguarda anche gli anziani?

 

Gli studi condotti in questi ultimi anni evidenziano un fenomeno inaspettatoil gioco d’azzardo, nelle sue forme sane e soprattutto patologiche, sarebbe in progressivo aumento tra gli anziani. Quello degli anziani sembra essere uno dei gruppi di giocatori d’azzardo a più rapida crescita in molte parti del mondo.

Ma come mai sono sempre di più gli over 65 che dilapidano la pensione nella speranza di fare fortuna?

 

L’indagine “Anziani e azzardo” di Auser Nazionale, Gruppo Abele Onlus, Coop Piemonte e Libera rivela che gli over 65, avendo entrate sicure (come la pensione) e avendo tempo a disposizione, sempre più spesso cedano alla giocataCentrale sembrerebbe essere il tempo. Se il lungo tempo libero non viene in qualche modo impegnato e valorizzato, rischia di essere solo un “tempo vuoto” da trascorrere alla ricerca di piccoli piaceri, magari momentanei ma che per qualche istante, il tempo di giocare ad un gratta e vinci, fanno sentire la persona viva. Ecco dunque come condizioni e fasi particolari della vita quali la vedovanza o il pensionamento o anche la lontananza dai propri affetti conducano all’isolamento e quindi ad uno stato di solitudine che può spingere l’anziano verso la depressione e la messa in atto di comportamenti disadattivi. L’industria del gioco d’azzardo si regge proprio su una particolare domanda di consumo: un consumo di emozioni, eccitazioni, tensione e di tante illusioni. Bisogna pertanto stare attenti a non sottovalutare questo fenomeno negli anziani. Negli over 65 infatti il gioco, avendo meno ripercussioni sulla vita familiare e lavorativa, porta alla sottostima del problema e rende difficile diagnosticare il disturbo.

La memoria

La memoria

La memoria

Breve guida all’esplorazione del cervello e delle funzioni cognitive. Capitolo 1

La serie di articoli dal titolo “Breve guida all’esplorazione del cervello e delle funzioni cognitive nasce dalla preparazione di un corso di “Ginnastica per la Mente” tenutosi nei primi mesi del 2019 presso l’Università della Terza Età e del Tempo Libero di Arluno, in provincia di Milano. Il corso aveva come oggetto il funzionamento cerebrale e l’allenamento cognitivo, e si divideva in una parte teorica e una pratica nella quale i partecipanti potevano esercitare quanto appreso e svolgere una serie di esercizi volti a mantenere attive le funzioni cognitive.

La richiesta dei partecipanti al corso di ricevere del materiale riguardanti gli argomenti trattati si è trasformata in una serie di scritti sulle varie funzioni cognitive, le loro caratteristiche e alcune curiosità a esse collegate.

Capitolo 1 – La Memoria

La memoria è forse l’abilità cognitiva che più incuriosisce e più preoccupa nello stesso tempo, soprattutto superata la mezza età, quando diventa frequente sentirsi dire che essa non è più la stessa e che quello riportato è un cambiamento normale, vista l’età. Essa è così importante per l’essere umano non solo perché è la base di tutti i compiti che richiedono apprendimento, ma anche perché è essenziale per la costruzione della propria identità personale. Da un lato, infatti, la memoria conserva la connotazione emotiva della nostra esperienza, e dall’altra i ricordi episodici sono fondamentali per la progettazione di sé nel futuro (è ampia la letteratura riguardo i mental time travel, tra cui Suddendorf et al., 2011).

 

La memoria è, infatti, quell’abilità cognitiva che ci permette di acquisire, conservare e recuperare le informazioni (Gazzaniga et al., 2005).

In realtà ci sono tanti tipi di memoria, e comunemente si fa riferimento alla memoria a lungo termine, cioè quella che trattiene l’informazione per una durata di tempo significativo. Essa può essere dichiarativa (o esplicita) o non dichiarativa (implicita). La memoria a lungo termine dichiarativa si suddivide a sua volta in memoria episodica (che contiene tutte le esperienze personali specifiche) e memoria semantica (conoscenze generali relative al mondo, significati delle parole). La memoria a lungo termine non dichiarativa, invece, riguarda tutte quelle conoscenze che si possono rilevare nelle attività quotidiane, ma di cui non siamo esplicitamente consapevoli (come per esempio le abilità procedurali).

Come si formano i ricordi?

La formazione dei ricordi a lungo termine a inizio nell’ippocampo (Dentici et al.,2004). Essi poi si consolidano attraverso le connessioni con le aree cerebrali specifiche per le aree sensoriali coinvolte (immagini visive, suoni, gusti, sensazioni tattili, ecc.).

Ogni ripetizione e associazione attiva i neuroni, rafforzando le connessioni cerebrali e consolidando così l’apprendimento.

Le reti associative di neuroni costituiscono l’organizzazione delle nostre esperienze (memoria episodica e autobiografica) e delle nostre conoscenze (memoria semantica). L’apporto dell’amigdala è invece essenziale per la memori emozionale (Gazzaniga et al.,2004).

In questo senso, la memoria potrebbe essere definita come la capacità di conservare le tracce delle connessioni sinaptiche (Trisciuzzi et al., 2005)

L’oblio: perché si dimentica?

La “curva dell’oblio” è uno schema costruito da Ebbinghaus (1885) per descrivere la ritenzione delle informazioni e in particolare il concetto per cui immediatamente dopo l’esposizione a date informazioni avviene un oblio molto veloce, mentre man mano con il tempo le informazioni si stabilizzano. Sono molteplici i motivi per cui le tracce mnestiche possono decadere, tra cui il decadimento spontaneo (disuso), il decadimento qualitativo (distorsioni e deformazioni dovute al contesto), le interferenze di altre attività.

Vediamo più nello specifico come l’oblio può agire differentemente a seconda dei momenti di formazione del ricordo, con un effetto cumulativo tra le varie fasi (Dentici et al.,2004):

Acquisizione: è la fase su cui è maggiormente possibile agire per migliorare l’apprendimento. In questo momento, i motivi per cui si dimentica possono comprendere:

  • Disattenzione
  • Scarsa organizzazione (ambiguità o complessità info)
  • Scarso numero di ripetizioni
  • Mancanza di elaborazione profonda
  • Mancanza di strategie e di controllo
  • Fattori emotivi

Ritenzione:

  • Disuso: le connessioni sinaptiche si sono indebolite
  • Interferenza: proattiva o retroattiva, un apprendimento ne ostacola un altro
  • Suggestione: interventi esterni che suggeriscono falsi ricordi, che si mescolano a quelli veri
  • Ansia e motivazione

Recupero:

  • Natura del compito
  • Tipo e numero di indizi (cue)
  • Strategie
  • Fattori emotivi

Quali metodi per migliorare la memoria?

Quando la nostra memoria inizia a indebolirsi a causa dei processi di invecchiamento, oppure abbiamo tante cose da ricordare e la sovraccarichiamo, è possibile servirsi di alcuni strumenti per aiutarsi nel ricordare le informazioni (Dentici et al.,2004).

Ausili esterni attivi: essi consistono in tutti quegli strumento da consultare nel momento in cui dobbiamo recuperare delle informazioni: calendari, agende, liste, timer, elenchi, ecc.

Mnemotecniche: sono delle strategie di acquisizione estremamente efficaci, per organizzare le informazioni in entrata. Esse comprendono:

  1. Metodi verbali: rime, acronimi, acrostici
  2. Metodi visivi: associazione visiva, metodo delle storie, metodo dei loci
  3. Metodi misti: parola chiave

Metodi cognitivi: rappresentano dei tipi di organizzazione personale dell’informazione in entrata, che solitamente utilizziamo ma in maniera inconsapevole:

  • serializzazione
  • associazione visiva
  • categorizzazione semantica e fonologica
  • organizzazione logica

Qual è la strategia migliore?

Secondo Dentici e collaboratori (2014) anche se non può essere definita a priori una strategia migliore di altre, in quanto la scelta della strategia dipende dalle caratteristiche individuali, dal tipo di materiale e dalla situazione, possiamo identificare alcune regole che ci aiutino a mantenere le informazioni:

1. Organizzare il più possibile in categorie

2. Attenzione durante l’apprendimento

3. Creare reti associative

4. Creare immagini mentali

5. Attribuire maggior significato possibile al materiale

La memoria di volti-nomi

Tra le varie informazioni del mondo che un individuo è chiamato ad apprendere, i volti (e i nomi a essi corrispondenti) rappresentano quella più importante. Seppure non sembra esistere un’area specifica per i volti, alcune regioni del lobo temporale si attivano alla vista di facce: giro temporale inferiore e giro temporale superiore, giro fusiforme (soprattutto nell’emisfero dx).

E allora perché sembra che l’associazione volto-nome sia una di quelle che più facilmente sfugge alla nostra memoria?

Secondo alcuni studi (Naveh-Benjamin et al., 2004), le persone anziane mostrano un deficit nel ricordo di informazioni associate tra loro (proprio come volto e nome). Inoltre, nonostante gli anziani abbiano una buona capacità di riconoscimento dei nomi, mostrano maggiori difficoltà nel riconoscimento dei volto e quindi nell’associazione dei due tipi di informazioni.

I nomi sono difficili da ricordare perché spesso non sono immediatamente associabili alla persona a cui appartengono e non sono facilmente immaginabili mentalmente. Inoltre, spesso non vengono ripetuti tanto quanto le altre informazioni.

Il riconoscimento dei volti è associato a 3 gruppi di fattori (Dentici et al., 2004):

  • Distintività: quanto una persona è particolare all’interno diana popolazione
  • Familiarità: dimestichezza con un determinato volto (numero e frequenza delle presentazioni)
  • Contesto: ambiente in cui di solito si incontra una persona

Strategia di associazione volto-cognome:

  • Prestare molta attenzione e ripetere mentalmente molte volte
  • Memorizzare le prime lettere
  • Associare il nuovo cognome a uno già memorizzato
  • Utilizzare una parole che faccia rima
  • Cercare nella faccia delle caratteristiche da collegare al cognome
  • Dare un significato al cognome
  • Fare riferimento al contesto

Bibliogarfia

Dentici, O. A., Amoretti, G., & Cavallini, E. (2004). La memoria degli anziani. Una guida per mantenerla in efficienza. Edizioni Erickson.

Naveh-Benjamin, M., Guez, J., Kilb, A., & Reedy, S. (2004). The associative memory deficit of older adults: Further support using face-name associations. Psychology and aging19(3), 541.

Suddendorf, T., Addis, D. R., & Corballis, M. C. (2011). Mental time travel and shaping of the human mind. M. Bar, 344-354.

Trisciuzzi, L., Zappaterra, T., & Sandrucci, B. (2005). II. Il recupero della memoria. In Il recupero del sé attraverso l’autobiografia (pp. 1000-1012). Firenze University Press.

La depressione

La depressione

La depressione

 

Abbiamo parlato spesso di neuroplasticità, ossia della capacità del nostro cervello di cambiare adattandosi alle condizioni ambientali.

Ma quale tipo di rapporto esiste tra la neuroplasticità e la depressione?

La depressione non solo provoca sofferenza psichica, ma rende chi ne soffre più vulnerabile a malattie cardiache e cerebrovascolari e a una mortalità maggiore rispetto alla popolazione generale.

È stato osservato che nei pazienti depressi sono frequenti cambiamenti nella struttura cerebrale. In particolare, le regioni cerebrali coinvolte sono:

  • ippocampo
  • corteccia prefrontale
  • amigdala

Anche se le relazioni causa-effetto non sono ad oggi del tutto chiare, lo studio del complesso rapporto tra neuroplasticità e depressione è senza dubbio un campo che potrà portare grandi risultati nei prossimi decenni.

Probabilmente il rapporto sintomi depressivi-cervello è comprensibile alla luce di una complessa interazione bilaterale.

Quello che sicuramente sappiamo, è che potrebbero esserci moltissimi passi avanti nella proposta di nuovi trattamenti farmacologici e non, tenendo in considerazione anche l’aspetto neurale del disturbo.

Depressione sorridente

 

Considerando invece le modalità di espressione di questo disturbo, secondo alcuni studi, molte persone nascondono i sintomi depressivi sotto una maschera di serenità e felicità.

Tale condizione patologica viene sperimentata da persone che all’apparenza non avrebbero nessun motivo per essere depressi, ma che nel profondo esperiscono sentimenti quali tristezza, perdita di speranza, stanchezza, eccessiva sofferenza, in seguito alle critiche , preoccupazione per un anticipato fallimento.

La “depressione sorridente” fa riferimento a una manifestazione atipica della sintomatologia depressiva, che si presenta in percentuali che vanno dal 15 al 40% dei casi di depressione.

Molto spesso la durata della sintomatologia è molto lunga, in quanto frequentemente le persone non sono propense a chiedere aiuto, e grave, correlando a un aumentato rischio di suicidio.

Appare molto peculiare, inoltre, il rapporto che questi individui avrebbero con il mondo dei social, dove ostenterebbero felicità e divertimento, nonostante il reale stato emotivo vissuto sia tutt’altro.

Aggressività. Emozioni e comportamento fuori controllo

Aggressività. Emozioni e comportamento fuori controllo

Aggressività. Emozioni e comportamento fuori controllo

Il termine aggressività deriva dal latino “adgredior” che letteralmente significa “avvicinarsi” ma che può essere anche inteso come “assalire”, “accusare”. Pertanto quando parliamo di aggressività ci rifacciamo ad un termine che riveste una pluralità di significati e include fenomeni molto diversi l’uno dall’altro. 

In psichiatria e in psicologia tale termine definisce una gamma molto vasta di comportamenti, che va dalle tendenze distruttive di sé e degli altri all’autoaffermazione in un contesto competitivo o in una situazione di frustrazione.Pertanto da un punto di vista quantitativo e qualitativo è possibile distinguere diversi aspetti dell’aggressività: dall’ostilità gestuale e verbale fino agli atteggiamenti distruttivi e agli atti di violenza. Osservando più da vicino vediamo come l’aggressività si possa manifestare sotto forma di autolesionismo oppure possa essere rivolta all’esterno, verso le altre persone o verso gli oggetti (lanciare a terra o rompere oggetti, dare calci alle porte o ai mobili, sbattere le porte etc..). 

Vi sono altre tipologie di aggressività?

Oltre all’aggressività fisica vi è quella di tipo motorio legata quindi ad una gestualità minacciosa o ad atteggiamenti esigenti ed impazienti e un’aggressività di tipo verbale che si esprime attraverso urla, linguaggio scurrile e bestemmie. 

Cognizione ed emozione

Da un punto di vista neuroscientifico l’aggressività può essere definita come una perdita del controllo inibitorio sul proprio comportamento e un’alterata regolazione delle emozioni può portare ad un comportamento aggressivo. 

Sebbene numerose indagini sperimentali abbiano rilevato il ruolo della corteccia orbitofrontale nel modulare o inibire gli stimoli contestualmente inappropriati o risposte di tipo automatico, in modo da regolare i rapporti sociali, rimane ancora oggetto di dibattito la localizzazione delle lesioni prefrontali che determinano un aumento di aggressività. Gli studi sull’aggressività si sono focalizzati in particolare sui processi che regolano la rabbia, le emozioni negative e l’impulsività. Alcuni studi neurofunzionali hanno mostrato un’attivazione in presenza di volti minacciosi dell’amigdala che altro non è che un complesso di nuclei a forma di mandorla situati nei lobi temporali e altamente connessi con diverse aree cerebrali. L’amidgala sembra avere un ruolo importante anche nell’attribuzione del valore emotivo ad uno stimolo e una sua lesione altera le reazioni aggressive in quanto il soggetto non è più capace di discriminare i segnali di minaccia da quelli che non lo sono. La corteccia orbitaria analizza successivamente le informazioni ed attribuisce un senso ad apprendimenti ed esperienze, integrandoli in una trama concettuale e, a sua volta, modula l’amigdala. In tal modo la corteccia frontale orbiterale regola le risposte aggressive.  

L’aggressività nei bambini: Il disturbo oppositivo provocatorio nei bambini. Quando chiedere aiuto?

Nelle persone gli impulsi aggressivi possono manifestarsi a livello verbale, fisico e sociale. L’aggressività può essere espressa direttamente e in modo evidente, o indirettamente e in modo mascherato. Le espressioni più evidenti si possono osservare, per esempio, nei bambini piccoli quando questi, per ottenere qualcosa, manifestano scatti di collera, ira etc. Ma quando un genitore deve iniziare a preoccuparsi? Secondo il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (#DSM 5) la caratteristica essenziale del disturbo oppositivo provocatorio nel bambino è un pattern frequente di umore collerico-irritabile e di comportamento polemico o provocatorio che dura da almeno 6 mesi. 

Osservando più da vicino questi sintomi per umore collerico si intende:

  • Un bambino che va spesso in collera;
  • Un bambino permaloso o facilmente contrariato;
  • Un bambino che spesso risulta adirato e risentito.

Relativamente al comportamento polemico bisogna notare se il bambino:

  • Litiga spesso con gli adulti;
  • Sfida o si rifiuta di rispettare le richieste provenienti da figure che rappresentano l’autorità;
  • Irrita frequentemente gli altri;
  • Accusa spesso gli altri per i propri errori o per il proprio cattivo comportamento.

E’ importante rivolgersi ad uno specialista e chiedere aiuto in quanto bambini che presentano un umore marcatamente collerico corrono il rischio di sviluppare in concomitanza disturbi emotivi (disturbi d’ansia e disturbo depressivo maggiore). I bambini invece che presentano una sintomatologia legata alla provocatorietà, polemica e vendicatività saranno invece più a rischio di sviluppare un disturbo della condotta. 

Adolescenti aggressivi. Quali i fattori di rischio?

L’adolescenza sappiamo essere un periodo difficile in quanto la nascita di nuovi bisogni fisiologici e psicologici altera gli equilibri familiari. 

I conflitti con i genitori sono all’ordine del giorno. I figli faticano a riconoscere, elaborare e a controllare le proprie emozioni e di conseguenza a rispettare le figure genitoriali. In questo periodo il ragazzo deve affrontare anche il primo naturale processo di separazione dall’altro ovvero dal genitore e i limiti, che inevitabilmente vengono fissati, possono generare reazioni aggressive. Generalmente ascoltare i ragazzi, avere poche regole ma chiare, può aiutare i figli a gestire la rabbia. Quali sono quindi i fattori di rischio che rendono violento l’adolescente nei confronti dei genitori? Qui di seguito ne vediamo alcuni:

  • Una comunicazione familiare disfunzionale;
  • Un’educazione basata su sensi di colpa, denigrazione, derisione, coercizione esasperata e punizioni fisiche;
  • Una frequente esposizione a liti familiari (soprattutto se violente);
  • Un basso status socio economico della famiglia;
  • Una scarsa regolazione delle emozioni;
  • Una spiccata impulsività e scarica motoria della rabbia;
  • Il crescere con genitori la cui autorità non viene riconosciuta.

Lo sviluppo dell’aggressività affonda quindi le radici in dinamiche familiari disfunzionali. Ecco quindi che interventi precoci possono fare la differenza. Importante pertanto incoraggiare i figli ma anche i genitori a chiedere aiuto a professionisti della salute mentale quali psicologi -psicoterapeuti per rinforzare le azioni preventive e impedire l’esacerbazione della conflittualità intrafamiliare. 

Aggressività nelle demenze. Come affrontarla?

Nelle demenze oltre ai disturbi di natura cognitiva vi sono quelli comportamentali. Essi rendono ancora più complessa e difficile la gestione dei malati da parte dei loro caregiver. 

I malati di demenza si comportano spesso in modo aggressivo. Possono essere aggressivi verso di sé e verso gli altri sia verbalmente che fisicamente. Una delle cause potrebbe dipendere da una difficoltà nella persona affetta da demenza di comprendere l’ambiente e decifrare gli stimoli in esso contenuti. Inoltre anche uno stato di noia o di frustrazione potrebbero essere fattori scatenanti.

Ma cosa possiamo fare nel caso di un comportamento aggressivo?

  • Cerchiamo innanzitutto di mantenere la calma e ricordiamoci che l’aggressività è dovuta alla malattia più che all’indivituo;
  • Proviamo a distrarre la persona impegnandola in attività gratificanti;
  • Evitiamo di usare la forza per obbligare la persona a compiere un’azione;
  • Inseriamo delle routine in modo che il malato possa riconoscere come familiari alcune abitudini.

E il caregiver può fare qualcosa per tutelare in primis sé stesso?

  • Sarebbe utile avere sempre pronta una via di fuga in modo da badare alla propria incolumità;
  • Informare il medico dei comportamenti aggressivi;
  • Sfogarsi con persone di fiducia;
  • Chiedere aiuto ad uno psicologo per affrontare questo periodo di difficoltà.

Ricordiamo inoltre che nelle persone affette da demenza non tutti i disturbi sono contemporaneamente presenti in uno stesso malato e in ogni malato i sintomi assumono espressioni diverse, sia per quanto riguarda la forma che per la gravità/intensità del comportamento.

Dalla vita reale a quella virtuale: l’aggressività nei social

Il web al giorno d’oggi non è più una realtà virtuale poiché le conseguenze che genera sono riscontrabili a tutti gli effetti nella vita reale. Un esempio di questo è l’influenza operata dai social sulle relazioni umane. La comunicazione all’interno delle piattaforme social si è modificata divenendo spersonalizzata e dematerializzata. Molte persone utilizzano la rete per sfogarsi, per attaccare o denigrare l’altro. A causa di questo eccesso di aggressività i social diventano spesso un luogo di disgregazione, venendo meno all’intento di mettere in relazione le persone. 

Ma come mai siamo così aggressivi sul web?

  • Lo siamo perché ci sentiamo di agire in anonimato. Lo schermo di uno smartphone o di un pc fa da filtro, dandoci la sensazione di essere in un luogo oscuro, protetto;
  • Lo siamo perché non abbiamo nessuno davanti a noi presente in carne ed ossa e questo ci porta a credere che quanto più la nostra comunicazione sarà denigrante tanto più saremo visualizzati;
  • Siamo aggressivi perché spesso fraintendiamo i messaggi che leggiamo. Non potendo attribuire ad un pensiero pubblicato un’intonazione, tendiamo ad interpretare su base personale, guidati quindi dallo stato d’animo del momento;
  • Siamo aggressivi perché siamo animali sociali e tendiamo a fare gruppo anche sul web e gli appartenenti a un gruppo tendono a regredire manifestando comportamenti infantili. I frequenti linciaggi presenti in rete sono l’espressione di dinamiche gruppali distorte in cui i partecipanti tendono a farsi trascinare dal gruppo verso posizioni estreme, senza freni inibitori, scrivendo qualunque cosa (talvolta anche non pensata) con lo scopo di vedere gli effetti del proprio messaggio aggressivo. 

Possiamo cambiare rotta? 

Sicuramente può essere utile un cambio di prospettiva: smettere di sentirci solo utenti e ritornare ad essere persone anche in rete. Questo probabilmente ci permetterà di sentirci più responsabili e più consapevoli delle conseguenze delle nostre azioni. 

 

I disturbi d’ansia

I disturbi d’ansia

I disturbi d’ansia

Tutti noi, prima o poi nella vita, abbiamo sperimentato l’ansia. Di per sè l’ansia non è un fenomeno anormale, anzi ci prepara ad affrontare una data situazione aumentando il nostro stato di vigilanza e di attenzione su potenziali fonti di pericolo. Si tratta di una risposta anticipatoria diversa dalla paura proprio perchè quest’ultima si sperimenta in risposta a una minaccia reale e imminente (o percepita come tale).

I disturbi d’ansia, così come definiti dal Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM V), sono diversi dalla comune ansia perchè la risposta emotiva è sproporzionata rispetto alla situazione, perdura nel tempo, costringe chi ne soffre a mettere in atto comportamenti di evitamento rispetto a determinate situazioni e compromette il funzionamento sociale o lavorativo delle persone.

I disturbi d’ansia più diffusi sono:

  • Fobia specifica: paura o ansia marcate verso un oggetto o situazione specifici.
  • Disturbo d’ansia sociale: ansia relativa a situazioni sociali nelle quali l’individuo è esposto al possibile esame degli altri.
  • Disturbo di panico: ricorrenti attacchi di panico inaspettati.
  • Disturbo d’ansia generalizzata: ansia e preoccupazione eccessive per lunghi periodi.

Dal punto di vista esperienziale possiamo affermare che i disturbi d’ansia si configurano come una compromissione della normale armonia tra il “corpo che sono” ed il “corpo che ho”. La maggior parte del tempo noi non avvertiamo il nostro corpo, mentre quando siamo in uno stato ansioso ci iper-focalizziamo sui nostri stati corporei. Pensiamo all’attacco di panico: il nostro corpo è un sintomo di qualcosa che non va!

Cosa succede nel nostro cervello quando siamo in ansia?

I meccanismi e i circuiti cerebrali che stanno dietro all’ansia sono molteplici ed estremamente complessi. Semplificando possiamo dire che le principali aree implicate sono:

  • il talamo che collega i sistemi sensoriali alle aree sensoriali primarie della corteccia che, a loro volta, sono collegate alle aree associative che elaborano lo stimolo;
  • l’amigdala, un archivio delle memorie emotive, che costituisce l’epicentro degli eventi coinvolti nella modulazione dell’ansia ed è coinvolta nella risposta cognitiva, emotiva, endocrina e autonomica dello stress;
  • l‘asse ipotalamo-ipofisi-surrene che attiva a cascata una serie di eventi volti ad aumentare la risposta neurovegetativa: aumento della pressione arteriosa e della frequenza cardiaca, sintomi viscerali e disturbi gastrointestinali.

 

Curare i disturbi d’ansia: i farmaci

Gli ansiolitici sono i farmaci utilizzati per attenuare i sintomi dell’ansia, la categoria più utilizzata è quella delle benzodiazepine; probabilmente conoscerete questi farmaci con il loro nome commerciale come lo Xanax, il Valium o l’En.
Questi farmaci agiscono a livello dei neurotrasmettitori aumentando gli effetti inibitori del GABA, neurotrasmettitore implicato nella modulazione dell’ansia poichè impedisce la propagazione dell’impulso nervoso.

Le benzodiazepine possono costituire un valido aiuto nel trattamento dei disturbi d’ansia se prescritte da uno psichiatra, ma non dovrebbero essere utilizzate come forme di automedicazione!
Questi farmaci, infatti, se assunti per periodi prolungati possono dare dipendenza sia fisica che psicologica. L’interruzione brusca dell’assunzione di alti dosaggi di benzodiazepine può provocare crisi di astinenza!
Per questo è fondamentale affidarsi a professionisti capaci di valutare la gravità della sintomatologia e consigliare, di conseguenza, la giusta terapia psicologica ed, eventualmente, farmacologica.

Curare i disturbi d’ansia: la psicoterapia

Il DMS V distingue e descrive 11 diversi disturbi sotto l’etichetta disturbi d’ansia.
E’ evidente come davanti a una tale eterogeneità di presentazioni sintomatologiche non possa esistere un’unica tecnica in grado di curare tutto.
Inoltre, è importante sottolineare che non solo i disturbi sono diversi tra loro, ma che ogni persona è diversa dall’altra. Ne consegue che la sofferenza provata da ciascuno di noi è unica e irripetibile e non riducibile a un’etichetta diagnostica a sua volta riducibile a un protocollo standardizzato di cura.

L’approccio psicoterapeutico a cui noi di Nepsi ci rifacciamo prevede di cogliere l’esperienza di ogni paziente nella sua individualità ritrovando il senso dell’emergere di una sintomatologia ansiosa nel suo peculiare contesto fatto dalla sua storia di vita e dalla sua quotidianità.
La contestualizzazione degli episodi caratterizzati dall’ansia permette al paziente di riappropriarsi del significato del suo malessere e di avviarsi verso una modificazione dei suoi modi di fare esperienza, fine ultimo della psicoterapia.
In genere i sintomi ansiosi regrediscono fino a scomparire nel giro di poche sedute, è importante continuare comunque la terapia finchè non si saranno raggiunti tutti gli obiettivi prefissati per evitare che i sintomi possano ripresentarsi in seguito.

 

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