Spazio e tempo

Spazio e tempo

Spazio e tempo

L’orientamento nello spazio e nel tempo è una caratteristica presente fin dalle prime fasi dello sviluppo della vita sulla terra, quando gli organismi erano ancora cellule semplici. Il bisogno di muoversi svolse un ruolo fondamentale nello sviluppo del sistema nervoso, e inizialmente era rappresentato dalla necessità di cercare cibo e di sfuggire ai nemici. Il movimento ebbe l’effetto di collegare il cervello con l’ambiente, permettendo ad alcuni organismi di trasformare gli oggetti o di fare previsioni mentali che rafforzavano il loro comportamento.

 

Il senso del tempo nasce dall’orientarsi nello spazio

 

La capacità di orientarsi nello spazio costituisce il catalizzatore di alcune delle funzioni superiori del cervello umano: incontrare stimoli, metterli in relazione tra loro, imparare dalla propria esperienza, ricordarsene.

Man mano che la corteccia cerebrale si è evoluta, il concetto di spazio di viene sempre più astratto, superando la concezione di contenitore di stimoli, ed è a questo punto che l’abilità di individuare e ordinare sequenze sensoriale si integra con le percezioni associative, creando il senso del tempo.

Tempo e spazio, quindi, sono inestricabilmente connessi sia nel nostro cervello sia nella nostra esperienza quotidiana.

 

Il GPS neuronale: il cervello che elabora spazio e tempo

 

Lo spazio e il tempo sono due concetti legati in modo molto stretto tra di loro, tanto che secondo Alber Einstein essi sono indissolubili, un’unità relativa al movimento dell’osservatore.

L‘ippocampo e la corteccia entorinale sembrano essere le strutture chiave del GPS neurale, contenendo cellule in grado di rappresentare la posizione su una sorta di mappa cognitiva e cellule che rappresenta le distanze, la velocità, il tempo di un percorso. Il nostro GPS, quindi, organizza il flusso dell’esperienza , creando una rappresentazione spazio-temporale integrata.

Per poter rappresentare i diversi aspetti della realtà in maniera coerente il cervello deve integrare e associare gli eventi nell’ordine in cui accadono, unendo e generalizzando le esperienze, e questo accade grazie ai vari ritmi del cervello, che ci rendono anche in grado di effettuare previsioni.

 

L’orientamento nel tempo e nello spazio

 

Nel campo della neuropsicologia clinica, Il disorientamento è l’incapacità di collocarsi correttamente nel tempo e/o nello spazio e si manifesta come l’impossibilità di ricordare la data, il giorno della settimana, l’anno in cui si è, oppure come il perdersi su strade che si conoscono bene, o addirittura non riuscire a capire dove si è in casa propria. Questi sintomi sono frequenti quando una persona è affetta da demenza e portano con sé un’ingente dose di ansia e preoccupazione per l’anziano.

Secondo alcuni studi la capacità di orientarsi nel tempo e nello spazio non è associata solo alla memoria, ma anche al buon funzionamento di altre abilità cognitive come le capacità visuo-spaziali, il linguaggio e l’attenzione.

Il disorientamento, quindi, sembra essere il risultato del malfunzionamento di varie strutture cerebrali e delle funzioni cognitive ad esse associate.

 

 

Il tempo e lo sviluppo dell’identità

 

Secondo l’approccio fenomenologico, la nostra esperienza ha un carattere temporale e la capacità operare una configurazione narrativa, attraverso il linguaggio e il raccontare costituisce la base dell’identità.

Ma come si forma l’identità nei bambini?

Quando acquisiscono la capacità di trasporre la loro esperienza in un racconto?

Tra i tre e i quattro anni, i bimbi, con l’aiuto dei genitori che forniscono il senso a ogni esperienza, iniziano a strutturare i vari eventi della propria vita in piccole storie. Verso i 5 anni i bambini riescono a inventare un gioco con un personaggio, ad articolare le azioni in una storia che via via si sgancia dal contesto.

Nell’età scolare, il bambino ha acquisito l’abilità di comporre le varie dimensioni temporali in un’unica unità narrativa, e ciò comporta l’acquisizione del senso di permanenza di sé nel tempo, che gli indica di essere sempre lo stesso durante le varie esperienze che vive. Questo sviluppo è accompagnato dalla maturazione delle aree cerebrali che sono alla base sia del ricordo del passato, sia dell’immaginazione del futuro.

 

Mental Time Line: 

 

Il tempo è un concetto astratto di cui è estremamente difficile farsi una rappresentazione mentale. Secondo alcuni studi, la nostra mente rappresenta il tempo utilizzando uno schema spaziale, sotto forma di una Mental Time Line, ossia una vera e propria linea del tempo, in cui il passato è verso sinistra e il futuro a destra.

Esiste però una differenza tra la lontananza psicologica degli eventi della nostra vita: gli eventi futuri sono vissuti psicologicamente come più vicini al presente rispetto agli eventi passati, data una equivalente distanza oggettiva dal presente. Mettendo a confronto diverse fasce d’età, è però emerso come questa relazione sia opposta negli adolescenti: essi tendono a percepire gli eventi futuri più lontani nel tempo rispetto agli eventi passati.

Questo fenomeno potrebbe essere una conseguenza dell’identità ancora in formazione dei ragazzi, i cui progetti e obiettivi futuri sono ancora poco definiti. Inoltre, anche le emozioni che connotano gli eventi ne modificano la percezione di vicinanza rispetto al presente: eventi felici vengono rappresentati più lontani rispetto a eventi tristi o ansiosi.

 

Il tempo emotivo

 

Le emozioni alterano la percezione del tempo, fino al punto che il tempo sembra volare quando ci si sta divertendo e sembra allungarsi quando ci si annoia. Alcune ricerche hanno utilizzato materiale emozionale standardizzato, con l’obiettivo di comprendere meglio i meccanismi neurocognitivi che sottendono gli effetti delle emozioni sulla percezione del tempo.

La gioia e la felicità sembrano essere in grado di influenzare la percezione del tempo negli individui provocando cambiamenti nel livello di attivazione fisiologica, comportamentale ed emotiva. Alcune tra le più importanti ricerche in questo campo dimostrano che variazioni nel livello di dopamina nell’organismo sono in grado di influenzare la percezione del tempo nei soggetti sperimentali che si erano sottoposti alla somministrazione di particolari farmaci. La somministrazione di sostanze psicostimolanti che agiscono sul sistema dopaminergico è in grado di provocare una sovrastima della durata temporale delle esperienze vissute dall’individuo producendo un aumento del livello di arousal raggiunto. Questi studi confermano la possibilità che l’esperienza emotiva di emozioni positive come la gioia e la felicità possano influenzare in maniera significativa la percezione dell’esperienza temporale, sovrastimando o sottostimando la durata temporale di un evento.

 

 

 

L’amicizia. Come cambia nel corso della vita?

L’amicizia. Come cambia nel corso della vita?

L’amicizia. Come cambia nel corso della vita?

 

“Nessun uomo è un’isola”. Questo scriveva John Donne nel 1624 ed è una considerazione quanto mai attuale. Poter contare su contatti sociali significativi e durevoli fa avere fiducia negli altri e alimenta il livello di soddisfazione nei confronti della propria vita. Questo  quanto è emerso dal rapporto annuale dell’Istat 2018. Considerando nello specifico l’amicizia, secondo molti esperti la vera amicizia riguarda il “sentirsi supportati nello stesso modo in cui si desidererebbe”. 

Ma è così facile trovarla? 

Negli Stati Uniti ben 42,6 milioni di persone sopra i 45 anni non saprebbero a chi chiedere aiuto o con chi confidarsi; in Italia oltre il 13% dei cittadini soffre di solitudine. Per molte indagini la solitudine è un’epidemia pari all’obesità. Le amicizie dunque non sono un lusso ma una necessità!! Dopo la comparsa delle moderne tecnologie le tipologie di relazioni sociali sono numerose e diverse tra loro ma il valore della socialità rimane prioritario. Che si tratti di interazioni reali o virtuali, il desiderio di socialità non rappresenta, come detto, solo una tendenza connaturata nell’uomo ma anche un incentivo ad avere maggiore fiducia nei confronti degli altri e della società. 

Nel cervello dei nostri amici

 

Uno studio del Dartmouth College ha messo in evidenza come il cervello di amici elabori la realtà in modo molto simile.  Per affermare questo gli studiosi hanno condotto uno studio in cui hanno sottoposto a 279 studenti universitari un questionario sulle loro abitudini di vita e di indicare quali fra gli altri studenti arruolati nella ricerca considerassero amici. Sulla base delle risposte hanno successivamente tracciato una mappa dei rapporti sociali fra gli studenti. Hanno poi mostrato a un sottogruppo di studenti una serie di brevi filmati – fra cui scene di vita reale, commedie, documentari e dibattiti – mentre ne monitoravano l’attività cerebrale con risonanza magnetica funzionale.

Gli scienziati hanno scoperto che il cervello degli amici risponde in modo molto simile. Regioni di concordanza sono state riscontrate nel nucleo accumbens, nel proencefalo inferiore, che gioca un ruolo importante nei meccanismi di rinforzo, dipendenza, piacere e paura, e nel lobo parietale superiore, dove il cervello decide come dare attenzione all’ambiente esterno. 

La somiglianza tra le risposte neuronali può essere utilizzata dunque per prevedere sia il rapporto affettivo che la distanza sociale tra due individui! Prossima sfida per i ricercatori sarà quella di comprendere se veniamo attratti naturalmente dalle persone che vedono il mondo alla nostra stessa maniera, se diveniamo più simili una volta che condividiamo le stesse esperienze, o se entrambe le dinamiche si rafforzano a vicenda.

Che funzioni ha l’amicizia tra bambini?

 

La Walt Disney Company ha condotto un sondaggio per celebrare le classiche storie sull’amicizia di Winnie the Pooh, rilevando che il 43% degli italiani intervistati ha incontrato il proprio miglior amico proprio negli anni dell’infanzia : il 76% prima degli otto anni e il 22% a sei anni. In realtà l’amicizia compare in tenerissima età. Addirittura già a 8-10 mesi i bambini instaurano rapporti preferenziali con alcuni coetanei. 

Ma per un bambino in età scolare chi è un amico?

  • è chi ti vuole bene;
  • è quella persona con cui poter giocare;
  • è una persona che sposeresti;
  • è quell’individuo a cui piacciono le stesse cose che piacciono a te.

Crescendo i sentimenti si affinano e quando l’amico non c’è si inizia a sentirne la mancanza o si prova gelosia se lo si vede giocare con un altro. Attraverso l’amicizia i bambini iniziano a “comprendere la mente“, de-centrandosi dal loro egocentrismo fisiologico, iniziando a sviluppare quella che in futuro sarà l’empatia. L’amicizia tra bambini dunque è fondamentale. Essa si basa su interazioni reciproche e orizzontali in cui vengono apprese abilità di cooperazione e competizione; si può parlare quindi di una vera palestra delle relazioni sociali. 

Chi è il “Migliore amico” per un adolescente?

 

L’amicizia tra adolescenti è quel tipo di interazione caratterizzata da sentimenti di simpatia, fiducia, solidarietà, confidenza e reciprocità nel prestarsi aiuto. Da giovanissimi tutti abbiamo avuto un “amico del cuore“, un compagno inseparabile con cui abbiamo condiviso confidenze e importanti esperienze.

Ma chi era il nostro migliore Amico?

  • Era quella persona a cui rivelavamo qualunque tipo di esperienza, dalle bugie ai litigi con i genitori. Era il nostro confidente e noi il suo; 
  • Era quella persona di cui ci potevamo fidare ciecamente; non avrebbe mai svelato a nessuno le nostre confidenze; 
  • Eri il nostro unico amico del cuore; il nostro migliore amico non aveva altri legami di amicizia così stretti; 
  • Era quella persona che ci capiva al volo, sentendo ciò che provavamo, condividendo insieme a noi problemi, sentimenti, emozioni.

Ecco perché  durante l’adolescenza l’amicizia assume tanta importanza:

  • Gli adolescenti si rifugiano negli amici perché in famiglia non si sentono compresi e appoggiati appieno;  l’amicizia in questo periodo assolve delle funzioni che la famiglia non riesce più ad assolvere;
  • Attraverso le amicizie gli adolescenti imparano che nelle relazioni è necessario rispettare delle regole; come ad esempio quella della fiducia, della solidarietà e del sostegno reciproco;
  • Per amicizia non si intende solo quella esclusiva tra due persone,ma anche quella di gruppo. L’appartenenza ad un gruppo crea nell’adolescente un buon senso di sicurezza e fa abbassare gli stati di ansia.
  • Avere dunque delle buone amicizie durante l’adolescenza è importante per sapere che cosa aspettarsi dagli altri, in vista di un buon futuro adattamento nella società. 

E che ruolo ha l’amicizia negli anziani? Quanti amici abbiamo nel corso della nostra vita? 

 

Una ricerca inglese di qualche anno fa, su un campione di 10.000 interviste, ha stimato una media di 400 amici. Questo numero va però diluito lungo il corso della nostra esistenza. Frequentiamo infatti non più di 30 persone alla volta. 

Uno studio della  University State of Michigan afferma come l’amicizia possa rappresentare un’importante fonte di felicità e di benessere per gli anziani. Talvolta coltivare le relazioni di amicizia può procurare addirittura un benessere superiore rispetto a quello fornito dalla famiglia che, quando l’individuo è anziano, può purtroppo essere assente oppure essere talvolta foriera di stress. 

Ma quali sono i due rimedi per vivere in modo sano e attivo la terza età?

  • Avere delle buone amicizie: una ricerca condotta su 7000 anziani negli stati uniti rileva come sia importante per la salute avere relazioni di qualità. Infatti quanti percepiscono gli amici come fonte di stress riferiscono un maggior numero di patologie croniche;
  • Avere una vita sociale: è molto importante coltivare relazioni amicali. Con il termine social engagement ci si riferisce proprio ad una modalità di occupazione per gli over 65 in cui viene dedicato del tempo agli impegni nel sociale o alle attività ludiche (come andare al cinema o a teatro).  Questi comportamenti hanno delle ripercussioni estremamente importanti sulla salute dell’anziano tanto da ridurre il il rischio di sviluppare un disturbo depressivo! 

Internet è una minaccia o una risorsa per l’amicizia nell’era dei social? 

 

In tanti tra poeti, filosofi e scrittori hanno cercato di dare una definizione dell’amicizia, ma non vi sono riusciti in quanto nessuna amicizia è uguale a un’altra anche se tutte hanno in comune un aspetto fondamentale: ‘il legame‘, ovvero, quel sentimento di vicinanza e di comunione che tiene legati due individui.

Prima dell’avvento di Internet ci si conosceva incontrandosi in luoghi di aggregazione reali; oggi invece si può assistere alla nascita di nuovi rapporti anche su “piazze virtuali”. Internet è nato con l’intento di azzerare le distanze tra le persone; in un sogno visionario in cui tutti potessimo essere interconnessi. 

Ma che impatto hanno avuto i social network sui nostri rapporti di amicizia? Possiamo rilevare sia criticità che punti di forza. Pensando alle criticità possiamo considerare: 

  • il rischio di isolamento: internet invece che unire potrebbe in alcuni casi sortire l’effetto contrario.Vi è mai capitato di andare ad una festa e di vedere diverse persone chine sul proprio cellulare? Questo è il fenomeno del Phubbing, ovvero quando in un contesto sociale si è concentrati sul proprio smartphone e non si considera il mondo circostante;
  • il rischio della menzogna: nella realtà virtuale è più facile mentire, camuffare il proprio stato emotivo e condividere un’immagine di sé poco veritiera;
  • il rischio di una comunicazione fallace: sui social manca il canale della comunicazione non verbale mediata dal corpo e questo non ci permette di cogliere le sfumature emotive fondamentali all’interno di una relazione.

Ma ora invece veniamo agli aspetti positivi:

  • Internet permette di mettere in contatto quelle persone che hanno difficoltà relazionali offrendo loro la possibilità di creare nuove relazioni;
  • Internet, riducendo le distanze, è un prolungamento delle relazioni reali permettendo alle persone di mantenersi in contatto più facilmente;
  • Internet, per mezzo dei social, unisce le persone che hanno interessi simili, dando loro la possibilità di trovare nuovi potenziali amici.  
Alla scoperta del DOC: il Disturbo Ossessivo Compulsivo

Alla scoperta del DOC: il Disturbo Ossessivo Compulsivo

Alla scoperta del DOC: il Disturbo Ossessivo Compulsivo

Fino alla pubblicazione della quinta edizione del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-5) il disturbo ossessivo-compulsivo (DOC) era inserito tra i disturbi d’ansia; oggi si è guadagnato, insieme ad altri disturbi ad esso correlati, un capitolo a sè diventando un’entità nosografica autonoma.

Nello stesso capitolo del DOC, quindi, troviamo:

  •  il disturbo di dismorfismo corporeo
  •  il disturbo da accumulo
  •  la tricotillomania (disturbo da strappamento di peli)
  •  il disturbo da escoriazione (stuzzicamento della pelle)

La scelta di riunire sotto lo stesso ombrello questi disturbi riflette le numerose evidenze scientifiche che sottolineano la stretta interconnessione tra questi disturbi e l’utilità clinica di raggrupparli nel supporto alla diagnosi.

Ma cos’è esattamente il DOC?

I suoi sintomi caratteristici sono la presenza di #ossessioni e/o #compulsioni.

Le ossessioni sono pensieri, immagini o impulsi ripetitivi, persistenti e intrusivi vissute in modo spiacevole poichè causano ansia nella maggior parte delle persone.

Le compulsioni sono comportamenti ripetitivi o azioni mentali che le persone si sentono obbligate a compiere in risposta a un’ossessione o a regole che devono essere rigidamente applicate.

Il contenuto specifico di ossessioni e compulsioni varia tra gli individui, ma ci sono temi comuni ai pazienti come quello della pulizia (ossessioni di contaminazione-compulsioni di pulizia), della simmetria (ossessioni di simmetria-compulsioni di ordine/ripetizione/conteggio), dei tabù (ossessioni aggressive, sessuali o religiose con conseguenti compulsioni) e di danno (timore di danneggiare se stessi o gli altri-compulsioni di controllo). Questi temi sono sono comuni anche in culture diverse e possono essere associati a differenti substrati neurali.

Il DOC nei bambini 

Il DOC non è prerogativa degli adulti ma può essere osservato anche nei bambini con età di esordio tra i 9 e gli 11 anni.

Come gli adulti, anche i bambini presentano ossessioni e compulsioni; le più comuni sono le ossessioni di contaminazione da germi o sporcizia, di ordine e simmetria e di tipo aggressivo legate alla paura di poter danneggiare se stessi o gli altri.

A differenza degli adulti, però, non sempre i bambini sono in grado di riconoscere che le loro ossessioni e compulsioni sono irragionevoli ed eccessive così come non è detto che siano in grado di verbalizzare le loro ossessioni che andranno dedotte a partire dalle compulsioni messe in atto. 

E’ importante sottolineare, però, che la maggior parte dei bambini attraversa periodi di sviluppo caratterizzati dalla normale presenza di lievi comportamenti compulsivi e ritualistici. Non bisogna allarmarsi, quindi, se a 7 anni i bambini si dedicano con una certa insistenza alla collezione di figurine o se dei comportamenti non conformi alle regole dei giochi scatena crisi di pianti e grida.

Piccoli rituali o la superstizione aiutano i bambini a controllare il loro ambiente e a gestire ansie e paure e tendono a scomparire da soli con la crescita.

Al contrario, i rituali dei bambini con DOC persistono nel tempo e sono invalidanti, provocano sofferenza nei bambini che se ne vergognano e tendono a isolarsi.

Il sonno

Il sonno

Il sonno

Il sonno è un processo fisiologico attivo durante il quale interagiscono tra loro numerosi centri del sistema nervoso centrale e autonomo.

Il fatto che quando siamo addormentati non siamo coscienti non significa che il nostro cervello sia semplicemente spento.

Durante il sonno infatti il nostro cervello è impegnato a riordinare e tagliare i collegamenti ritenuti meno importanti formatisi nel corso della giornata. A riguardo il sonno sarebbe in grado di favorire diversi stadi del processo di memorizzazione, come la codifica delle informazioni, il loro consolidamento e il recupero.

Quali sono le fasi del sonno?

 

Il sonno viene suddiviso in fase nonREM (non rapid eye movement, senza movimenti oculari) a sua volta suddivisa in 4 fasi e la fase REM.

  • La fase non REM comprende l’intera sequenza di sonno che va dalla sonnolenza (fase I) al sonno profondo (fase IV) e dura circa un’ora.
  • La fase REM è lo stadio in cui facciamo la maggior parte dei sogni e in cui il flusso sanguigno, la respirazione e l’attività cerebrale aumentano gradualmente. Le onde cerebrali in questa fase aumentano la frequenza e diminuiscono l’ampiezza.

Un ciclo completo di sonno negli adulti è caratterizzato dalla progressione dalla fase I alla fase IV prima di arrivare a quella Rem, per poi ricominciare di nuovo.

Il pavor nocturnus nei bambini

I terrori nel sonno, noti anche come pavor nocturnus, si caratterizzano per un parziale risveglio dal sonno profondo accompagnati il più delle volte da grida, tachicardia, sudorazione, pallore e respiro affannoso.

E’ una parasonnia, cioè una perturbazione non patologica del sonno, ed è una manifestazione piuttosto comune nei bambini in età prescolare.

I bambini sembrano inconsolabili, non rispondono agli stimoli ambientali, possono scendere dal letto e camminare/correre per la casa urlando terrorizzati. 

Questi episodi preoccupano e spaventano i genitori perchè effettivamente sono molto impressionanti da osservare, ma è importante ricordare che i terrori nel sonno non presentano nessuna causa patologica sottostante. Non sono dovuti a traumi psicologici o problematiche affettive o relazionali e non vanno confusi con gli attacchi di panico.

Solitamente, il pavor nocturnus dura dai 30 secondi ai 10 minuti. Una volta conclusi i bambini tornano a dormire come se non fosse successo nulla e la mattina dopo non hanno nessun ricordo dell’episodio.

In genere i terrori notturni tendono a scomparire da soli con il tempo e sono necessari solo degli accorgimenti per mettere in sicurezza il bambino che può farsi male alzandosi dal letto.

Le funzioni esecutive

Le funzioni esecutive

Quando si parla di funzioni esecutive, si intende l’insieme dei processi cognitivi superiori che dirigono, pianificano, supervisionano le funziono di base (linguaggio, memoria, percezione, controllo motorio) per ottenere dei comportamenti orientati a uno scopo.

Le funzioni esecutive entrano in gioco quando:

  • pianifichiamo una serie di azioni o movimenti
  • vogliamo raggiungere un obiettivo
  • vogliamo trattenerci dal mettere in atto dei comportamenti non socialmente adeguati
  • abbiamo bisogno di regolare il nostro stato emotivo

 

Le funzioni esecutive hanno a che fare con le attività che richiedono un’elaborazione delle informazioni complessa ed entrano in azione quando bisogna affrontare problemi astratti e attività orientate a uno scopo. Le aree del cervello che costituiscono la base neurale a questa abilità sono i lobi frontali, che sono tra le aree più “giovani” del cervello sia a livello della storia dell’essere umano sia all’interno dello sviluppo del singolo individuo. I lobi frontali sono costituiti dalla corteccia motoria e dalla corteccia prefrontale, che si divide a sua volta in dorsolaterale (importante per i processi esecutivi) e orbitofrontale (coinvolta nell’elaborazione emotiva e nei processi decisionali).

Queste abilità entrano in gioco in moltissime attività che prevedono un lavoro di pianificazione e organizzazione. Pensare le proprie giornate e riportare gli impegni su un’agenda, tenendo conto di diversi orari di apertura dei negozi, del percorso più veloce da fare per raggiungere una serie di posti, dei nostri orari di lavoro, è un grandissimo lavoro per le nostre funzioni esecutive.

Anche la preparazione di un viaggio richiede l’utilizzo di queste abilità cognitive: sceglier la destinazione, tenere conto del clima, non superare il budget a disposizione, organizzare le visite in maniera da riempire le giornate di viaggio ma anche di riuscire comodamente a effettuare gli spostamenti necessari.

 

Funzioni esecutivi in adolescenza

 

I lobi frontali sono l’area del cervello più giovane a livello dello sviluppo filogenetico e ontogenetico dell’essere umano. Ciò vuol dire che tale zona cerebrale è l’ultima a essere apparsa nella specie umana, ed è quella per la cui maturazione completa sono necessari più anni durante la vita del singolo individuo. In particolare, i lobi frontali completano la loro maturazione nella prima età adulta, e con loro le abilità cognitive di cui essi sono i mediatori: pianificazione, impulsività, inibizione, regolazione emotiva.

L’adolescenza costituisce il periodo di vita immediatamente precedente al completamento dello sviluppo cerebrale, e spesso è un momento in cui i ragazzi sperimentano comportamenti e sostanze che possono essere dannosi per la loro crescita.

È quindi logico chiedersi in che modo l’uso di alcol e droghe influenza il cervello dei nostri giovani. Uno studio pubblicato nel 2016 sulla rivista Cerebral Cortex ha studiato longitudinalmente un gruppo di ragazzi con Disturbo da Uso di Cannabis (DSM 5), confrontandoli con un gruppo di soggetti sani, rilevando come l’uso di cannabis sia associato a una diminuzione della connettività funzionale nella corteccia cingolata anteriore e nella ciorteccia frontale dorsolaterale e orbitofrontale.
Tale minore funzionalità sembra predire un maggiore utilizzo di cannabiniodi per i seguenti 18 mesi, che a sua volta predice un più basso quoziente intellettivo e un funzionamento cognitivo più lento.

Effettivamente, l’uso/abuso di alcol e #roghe sembra avere un effetto negativo sullo sviluppo finale dei lobi frontali, ma non adi altre aree del cervello che maturano prima, come l’amigdala e l’ippocampo.

 

 

Lobi frontali e truffe agli anziani

 

Il processo decisionale economico (tra cui rientrano gli acquisti) sembra avere luogo nella corteccia orbitofrontale e fa parte di quell’insieme di funzioni esecutive “calde”, cioè che necessitano dell’apporto non solo del pensiero razionale ma anche dei processi emotivi.

Da molti studi effettuati negli anni, la popolazione anziana sana (cioè non affetta da disturbi cognitivi o psichiatrici) sembra essere
maggiormente a rischio di essere vittima di truffe. Sembra infatti che la maggior propensione a essere vittimizzati dipenda da difettuali abilità di decision making.

La spiegazione di questa maggiore difficoltà risiede nella “Frontal Lobe Hypotesis“, secondo la quale una parte di anziani subisce dei cambiamenti legati all’età nelle strutture prefrontali del cervello

Tale cambiamento porterebbe a più difficoltà in:

  • ragionamento
  • abilità di giudizio
  • stime cognitive
  • velocità di elaborazione

 

Questo comporterebbe che anche nel contesto di memoria, apprendimento e funzioni intellettive generali preservate, gli anziani sarebbero più fragili a livello cognitivo e quindi più spesso vittime di loschi individui. Ovviamente questi accadimenti sono spessi accompagnati da un vissuto emotivo negative, relativo alla diminuzione della propria indipendenza e della lucidità mentale.

 

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