Decision making. Cosa si nasconde dietro alle nostre scelte?

Decision making. Cosa si nasconde dietro alle nostre scelte?

Decision making. Cosa si nasconde dietro alle nostre scelte?

Il “decision making” è quella qualità umana che consente di risolvere problematiche complesse prendendo la decisione più efficace attraverso una valutazione cosciente e ponderata delle possibili alternative di azione. 

La decisione, da parte di un individuo, implica un comportamento volontario e intenzionale che fa seguito a un ragionamento. Nella maggior parte dei casi prendere decisioni significa ragionare in condizioni di incertezza: non riusciamo a prevedere con certezza l’esito futuro delle possibili alternative a disposizione, ma nella migliore delle ipotesi riusciamo soltanto a stimare la probabilità di tali esiti. 

Le distorsioni del pensiero influenzano le nostre scelte

 

Si è soliti credere che la capacità di prendere decisioni corrette ed efficaci si fondi sulla razionalità: maggiore è la capacità di analizzare i fattori di una situazione e maggiore sarà la capacità di prendere decisioni corrette ed efficaci. In realtà questa visione è un retaggio culturale proveniente dall’Illuminismo in cui si decretava il “trionfo della ragione”. Nel corso del 900 studi di economisti che analizzavano i comportamenti degli investitori hanno messo in discussione questo paradigma. Questi infatti non rispondevano alla logica della razionalità perfetta operando degli errori ricorrenti non imputabili semplicemente a distrazione o mancanza di informazioni.

 

Quali sono dunque i fattori di distorsione che influenzano il nostro pensiero?

  • Memoria e attenzione : le decisioni future sono influenzate dal ricordo delle decisioni precedenti che influenzano la percezione del problema attuale;
  • Confronto tra le opzioni: le opzioni scelte in precedenza ci risultano migliori;
  • Carico percettivo: in condizioni di pressione siamo portati a compiere scelte impulsive;
  • Soggettività : soggetti decisori, in generale, smettono di cercare opzioni alternative o ulteriori informazioni quando pensano di avere già in mano del materiale soddisfacente;
  • Caratteristica degli stimoli: il modo e la tempistica con cui vengono presentati i problemi o le opzioni di scelta influenza la valutazione che il soggetto decisore ne da.

Cosa possiamo fare per migliorare il nostro decision making nel quotidiano? Sicuramente è utile approfondire i seguenti aspetti:

  • Conoscere i meccanismi che regolano il processo decisionale approfondendo la conoscenza delle funzioni cognitive;
  • Acquisire consapevolezza della propria componente emotiva poiché questa influenza l’analisi del problema e la conseguente scelta.

Qualora riscontriamo delle difficoltà rivolgersi a degli esperti può essere utile per approfondire le molte sfaccettature degli stili decisionali presenti nella nostra vita.

La saggezza dei più piccoli

 

Secondo uno studio condotto presso la Waterloo University, i bambini a partire dai 6 anni analizzano le situazioni cogliendo le stesse informazioni di un adulto, ovvero secondo una modalità di risparmio.

Che cosa accade dunque nei più piccoli? 

Nello studio sono stati valutati 288 bambini per determinare se durante la formulazione di giudizi utilizzano informazioni numeriche, sociali o di entrambi i tipi. Nei bambini di 5 anni solo il 70% valuta e decide in base alle sole informazioni sociali, percentuale che si abbassa nei più piccoli. Nei piccoli di 4 anni solo il 45 % giudica in base alle sole informazioni sociali. Per intenderci i bambini più piccoli nel compiere una scelta analizzano la situazione in modo più completo mostrandosi più propensi a prendere in considerazione entrambe le informazioni numeriche e sociali.

Dai 6 anni in poi invece il modo di ragionare è più simile a quello adulto che tende ad utilizzare delle euristiche che altro non sono che delle scorciatoie del pensiero per risolvere un problema. Nel caso dello studio l’euristica utilizzata è quella della rappresentatività utilizzata per classificare oggetti, individui, eventi. Essa impiega gli stereotipi e il criterio della somiglianza. Gli adulti tendono a non usare tutte le informazioni a loro disposizione quando formulano giudizi, probabilmente perché questo richiede l’impiego di molte risorse in termini di tempo ed energie mentali.

Questo studio rivela quindi come l’euristica della rappresentatività si sviluppi durante gli anni prescolari, tra i 4 e i 6 anni, portando i bambini ad una rapida escalation verso il risparmio di risorse cognitive. Un risparmio che molto probabilmente caratterizzerà la formazione di giudizi nella vita adulta.

L’autodeterminazione. La spinta dell’anziano alla scelta

 

L’autodeterminazione è quella capacità di prendere decisioni e di avere controllo sulla propria vita. Essa è un elemento fondamentale per il benessere psicologico di tutti gli individui in modo particolare degli anziani che hanno ancora bisogno di sentirsi utili. Vediamo più da vicino le motivazioni che spingono all’autodeterminazione: 

  • La competenza intesa come imparare e acquisire abilità;
  • Le relazioni intese come il sentire un senso di comunità, di appartenenza;
  • L’autonomia intesa come l’avere il controllo della nostra vita e dei nostri comportamenti.
  • Le motivazioni dunque sono ciò che definisce una scelta e quindi l’autodeterminazione. Le motivazioni possono essere guidate da fattori intrinsechi o estrinsechi.

Il nostro agire ad esempio è legato all’ottenimento di soddisfazioni esterne quali possono essere il denaro, l’ammirazione, i regali. Tra queste vi è anche il riconoscimento sociale che gioca un ruolo chiave nell’anziano. Spesso gli anziani sembrano non accettare i sintomi di non autosufficienza opponendosi fermamente all’idea di ricevere un aiuto. In loro prevale la necessità di mantenere un certo ruolo sociale che non sia intaccato da un’immagine legata ad uno stato di incapacità. Pertanto è importante considerare le motivazioni che l’anziano esprime quando si tratta della sua assistenza. Vi sono casi in cui l’anziano potrebbe rifiutare un aiuto solo per non essere giudicato da altri, oppure potrebbe decidere di essere assistito da una persona del proprio stesso sesso per convinzioni personali sulla moralità.

Le implicazioni in una scelta possono essere molteplici, ma ciò che conta è comprendere che se l’anziano è in grado di intendere e volere ha diritto di esprimere la sua volontà senza che altri si sostituiscano a lui. 

 

Creatività: svilupparla e mantenerla durante l’arco di vita

Creatività: svilupparla e mantenerla durante l’arco di vita

Creatività: svilupparla e mantenerla durante l’arco di vita

La creatività è un’abilità che si manifesta in modalità molto differenti in ogni persona. Essa è comunemente associata alla produzione artistica e letteraria, ma in realtà non rappresenta solo la capacità di dipingere un quadro o di scrivere un pezzo musicale o una poesia, ed è fortemente legata al dominio specifico del compito che dobbiamo svolgere. Si usa la creatività anche nell’ambito scientifico, per scoprire una legge matematica o fisica che spiega il mondo o per esplorare le potenzialità di un farmaco in laboratorio.

Come vedremo, i processi creativi si sviluppano durante l’arco di vita con percorsi discontinui e personali, direttamente dipendenti sia dalle caratteristiche individuali, sia dal contesto ambientale.

Hai mai pensato che potresti essere più creativo di quello che pensi?

 

Che cos’è la creatività?

 

Abbiamo già parlato della creatività in altri articoli, perché è un concetto che ci affascina non poco.

Si definisce come la produzione di efficaci novità. In questa definizione emergono due caratteristiche: la novità e l’utilità, ed è un processo cognitivo che può essere applicato a molteplici domini. Per esempio, può esserci una tipologia di creatività più legata al dominio della conoscenza di un qualche argomento, oppure una creatività associata all’ambito emotivo. Oppure ancora, può essere spontanea oppure seguire un modello di elaborazione più volontario.

La letteratura più recente, in cui si cerca di spiegare la creatività alla luce dei processi cognitivi, mostra come essa sia dominio-specifica e come il rapporto con la conoscenza di base sia specifico per ogni argomento. Per esempio, per dipingere un bel quadro, non è per forza necessario conoscere a fondo la storia dell’arte, perché il processo è maggiormente legato al dominio emotivo ed emerge in modo spontaneo in chi dipinge. Per inventare una formula in grado di spiegare in modo nuovo il mondo, come per esempio nell’ambito della matematica o della fisica, è invece necessario conoscere in profondità l’argomento e applicarsi in un ragionamento volontario.

 

Anche se è chiaro che l’emotività contribuisce in modo consistente, dal punto di vista cognitivo, la creatività può essere declinata in 3 processi:

  1. aprire la mente a un numero più vasto di elementi
  2. connettere, cioè stabilire relazioni tra elementi e combinarli in modo nuovo
  3. riorganizzare, ossia cambiare prospettiva e invertire le relazioni

 

Le età della creatività: dall’infanzia…

 

La nostra età determina dei cambiamenti nel modo di essere creativi. 

 

Nel periodo pre-scolare, si osservano differenze individuali nel pensiero divergente, una delle forme più studiate di creatività. Queste differenze seguirebbero un trend di crescita fino alla prima adolescenza, con dei “crolli” che si verificherebbero a 5, 9 e 12 anni. Sembrerebbe quindi che la creatività si sviluppi in maniera discontinua nell’arco di vita, con dei picchi e dei crolli.

Ma da che cosa dipendono? È davvero possibile rintracciare delle traiettorie comuni di sviluppo?

I risultati di queste ricerche sono apparsi poco replicabili circa l’età esatta dei “crolli”, che parrebbero molto più dipendenti da caratteristiche individuali, culturali e dalle specifiche del compito da portare a termine. Secondo i ricercatori (Barbot et al., 2016), in realtà non è possibile definire una traiettoria di sviluppo della creatività che vada bene per tutti e l’apparente discontinuità nel suo manifestarsi sia dovuta all’asincronicità dello sviluppo delle caratteristiche individuali che sottendono i processi creativi, alle caratteristiche dell’ambiente che permettono la linea di sviluppo della persona e alle caratteristiche dell’attività.

La scuola, per esempio, costituisce un ambiente importantissimo dove i bambini possono imparare a sperimentarsi al di fuori dalla famiglia, già dai primissimi anni di età. È chiaro quindi che le modalità di insegnamento possono influire in modo consistente con lo sviluppo delle abilità creative. A questo proposito, nel primi anni 2000 si è aperta negli ambienti educativi la domanda: è meglio insegnare in modo creativo oppure insegnare ai piccoli a essere creativi?

Il National Advisory Committee on Creative and Cultural Education (Futures, 1999) fa osservare che in realtà i due termini sono strettamente legati tra loro, in quanto insegnare a essere creativi coinvolge l’insegnare creativamente. Viene inoltre sottolineato che le capacità creative dei più piccoli hanno più probabilità di essere sviluppate in un’atmosfera in cui vengono impegnate le abilità creative dell’insegnante stesso.

La risposta è ancora controversa, ma ciò che è chiaro è che, oltre allo stile di insegnamento, è necessario elicitare nei bambini e nei ragazzi delle esperienze di apprendimento che facciano leva sia sulle caratteristiche personali, sia sull’abilità di trarre nuove soluzioni da ciò che viene loro insegnato (Jeffrey & Craft, 2004).

 

 

…alla terza età

 

L’avanzare dell’età, seppur in salute dal punto di vista cognitivo, provoca dei cambiamenti a livello cerebrale, soprattutto nelle aree frontali del cervello, che abbiamo visto essere fondamentali nel coordinamento dei processi creativi.

Secondo l‘ipotesi della riserva cognitiva, le esperienze che facciamo nel corso della vita (educazione, occupazione, attività fisica e mentale, ecc.) permettono al nostro cervello di sviluppare la capacità di mettere in atto strategie alternative per affrontare compiti che sarebbero difficili a causa del cambiamento dovuto all’invecchiamento cerebrale.

Alcuni studiosi (Colombo et al., 2018) hanno mostrato che è possibile rintracciare un legame tra la nostra riserva cognitiva e il ragionamento creativo negli anziani. Entrambi i costrutti coinvolgono infatti l’abilità di riorganizzare i processi di elaborazione delle informazioni in modo flessibile e risulterebbero molto simili tra loro.

Ottimizzare la propria riserva cognitiva durante tutto il corso della propria vita può aiutarci a essere maggiormente flessibili ai cambiamenti da anziani.

 

Lavoro creativo

 

Abbiamo visto le traiettorie di sviluppo della creatività durante l’infanzia e come mantenerla attiva durante la terza età, ma ancora non ci siamo soffermati su come essa si manifesta nell’età adulta. Durante questo periodo dell’arco di vita, trascorriamo gran parte delle nostre giornate nello svolgimento della nostra attività lavorativa ed è a questa sfaccettatura dei processi creativi che vogliamo guardare.

La creatività, infatti, è di vitale importanza anche nel contesto lavorativo, in quanto i lavoratori possono essere una fonte di idee, servizi, prodotti e processi creativi, utili all’innovazione delle organizzazioni. Inoltre, se il lavoratore utilizza attivamente la propria creatività, è ormai noto che esperisce un interessamento migliore al lavoro, una più grande soddisfazione e una maggiore motivazione intrinseca.

Esistono molti fattori che possono stimolare o inibire la creatività individuale sul luogo di lavorro:

  • Caratteristiche individuali: personalità, esperienza, stile cognitivo
  • Caratteristiche del lavoro: livello di stress, tempistiche pressanti, autonomia nel lavoro, presenza di premi
  • Caratteristiche dell’organizzazione: clima, pratiche delle risorse umane

 

In particolare, lo stress esperito dalla persona nell’ambiente lavorativo può essere un fattore chiave per l’inibizione della creatività. Nella maggior parte delle ricerche è stato indagato l’effetto negativo dello stress sui fattori cognitivi che sottendono il processo creativo, ma poca attenzione è stata focalizzata sui correlati fisiologici, che coinvolgono la risposta corporea.

Il nostro corpo, infatti, risponderebbe in maniera differente a situazioni sfidanti o minacciose, e osservare attentamente la reazione fisiologica potrebbe fornire informazioni più approfondite dei semplici questionari self-report utilizzati nel mondo delle organizzazioni. Queste osservazioni, potrebbero fornire nuove informazioni sul legame tra stress e creatività nell’ambiente lavorativo.

 

Dove prende forma la creatività?

 

Nel nostro cervello esiste un certo grado di lateralizzazione emisferica. Questo significa che i due emisferi cerebrali non sono perfettamente simmetrici, ma presentano delle differenze nella struttura, nella configurazione e nelle funzioni svolte.

L’apporto dell’emisfero destro nei processi creativi è stato indagato a fondo nello studio delle neuroscienze. Alcuni studi svolti nel passato hanno permesso di rilevare che, quando ci vengono presentati stimoli reiterati, l’emisfero sinistro mantiene un attività costante, mentre il destro si attiva solo con uno stimolo nuovo. Altre ricerche confermerebbero che il culmine della creatività, la scintilla dell’intuizione (detta insight), avverrebbe in seguito all’attivazione della circonvoluzione temporale destra, confermando la capacità dell’emisfero destro di stabilire connessioni tra diverse classi di informazioni.

In realtà, l’insight costituisce solo il culmine dell’attività creativa, e alla fine dei conti sembra che il cervello sfrutti, in momenti diversi del processo, le caratteristiche di ciascun emisfero, ognuno dei quali contribuisce alla creatività in modo differente.

L’area cerebrale maggiormente coinvolta nel processo creativo è la corteccia prefrontale. Essa è responsabile del ragionamento astratto, della regolazione emotiva e delle intuizioni creative. Infatti, i circuiti neurali coinvolti nell’elaborazione di informazioni che generano combinazioni non creative sono gli stessi che producono combinazioni di informazioni creative o nuove. Le funzioni cognitive, però sono organizzate in modo gerarchico, e la corteccia prefrontale costituisce il top della gerarchia, coordinando le funzioni cognitive superiori. Una volta attivato il processo creativo, essa determina l’intervento delle altre regioni cerebrali necessarie.

L’attivazione della corteccia prefrontale sembrerebbe confermare che entrambi gli emisferi sono coinvolti nel processo creativo, sebbene con ruoli differenti.

 

 

Bibliografia

Barbot, B., Lubart, T. I., & Besançon, M. (2016). “Peaks, slumps, and bumps”: Individual differences in the development of creativity in children and adolescents. New directions for child and adolescent development2016(151), 33-45.

Colombo, B., Antonietti, A., & Daneau, B. (2018). The relationships between cognitive reserve and creativity. A study on American aging population. Frontiers in psychology9, 764.

Futures, A. O. (1999). National Advisory Committee on Creative and Cultural Education. Department for Education & Employment.

Jeffrey, B., & Craft, A. (2004). Teaching creatively and teaching for creativity: distinctions and relationships. Educational studies30(1), 77-87.

 

L’effetto ombra. L’impronta della lettura nel cervello

L’effetto ombra. L’impronta della lettura nel cervello

Sappiamo che leggere faccia bene per molte ragioni, una tra queste è legata all’aumento di connessioni che la lettura genera.

 

Ma fino a che punto leggere un romanzo modifica le connessioni cerebrali?

Nel 2013 è stato condotto uno studio presso la Emory University in cui è stato chiesto ai partecipanti di leggere per 9 sere trenta pagine di un romanzo. Ogni mattina, a mente riposata, gli stessi soggetti venivano sottoposti a risonanza magnetica funzionale.

Cosa hanno rilevato gli studiosi?

Hanno riscontrato un aumento di connettività in due aree:

A livello del solco centrale del cervello (un’area che separa la corteccia motoria da quella sensitiva).
L’attivazione di quest’area si spiega come se la lettura fosse uno specchio in cui guardarsi. I movimenti realizzati dai personaggi dei libri attivavano nel cervello dei lettori le stesse aree che si sarebbero attivate se avessero svolto in prima persona quei movimenti. Quest’area del cervello è infatti importante nel rilevare le sensazioni corporee e negli aspetti connessi all’empatia.

A livello del lobo temporale sinistro (un’area associata al linguaggio).
La maggior connettività cerebrale riscontrata viene spiegata come un effetto della lettura della sera precedente. Tale effetto è stato definito dai ricercatori “effetto ombra”. L’impronta della lettura permane nel cervello fino a cinque giorni dopo che la lettura è finita, ma se il libro che abbiamo letto ci è piaciuto particolarmente può rimanere più a lungo.

Berns G., Blaine K., Prietula M., Pye B.E. (2013). Short- and Long-Term Effects of a Novel on Connectivity in the Brain. Brain ConnectivityVol. 3, No. 6

Social Network: quando la connessione diventa patologia

Social Network: quando la connessione diventa patologia

Social Network: quando la connessione diventa patologia

 

I Social Network sono piattaforme online sempre più utilizzate e in continua evoluzione. Ce ne sono più di 200, tra cui i più comuni sono Facebook, Instagram, Twitter e Linkedin. Le caratteristiche che fanno di un sito un Social Network sono la possibilità di costruire un profilo pubblico o semi-pubblico, di impostare una lista di utenti (detti amici, follower, contatti) con cui condividere i propri contenuti, monitorare le proprie connessioni con gli altri profili.

Quali differenze tra mondo online e mondo offline?

 

Che sia durante la frequentazione di un sito internet o di un bar o un parco, le relazioni sociali fanno intrinsecamente costitutive del modo di essere di qualsiasi individuo. Lo studio delle relazioni online potrà aprire nuove strade alla comprensione comprensione nell’ambito delle neuroscienze sociali, ma ad oggi gli ambienti sociali e virtuali rimangono ancora molto differenti tra di loro per i seguenti aspetti:

  • Adesione alle norme sociali: nel mondo virtuale viene spesso a mancare la reciprocità che contraddistingue gli scambi faccia a faccia. Per esempio la violazione delle norme di educazione si verifica più frequentemente rispetto al mondo offline.
  • Prossimità spaziale o sociale: i Social Network danno la possibilità di entrare in contatto con persone che non necessariamente sono vicini a livello spaziale (per esempio amici di altri paesi) e sociale (per esempio possibilità di connessione con personaggi pubblici, artisti, politici, ecc.)
  • Temporalità: la conversazione nel caso di commenti a post sui Social Network è caratterizzata dalla presenza di pause nei commenti, mentre lo scambio offline si caratterizza per la maggiore immediatezza. Inoltre, come dice il famoso detto Verba volant, scripta manent: ciò che viene scritto tra i commenti e nei post sui Social Network, a differenza di una conversazione a voce, è permenente e può essere reperito anche dopo molto tempo
  • Identità evidente vs nascosta: sui Social Network è possibile creare profili in cui la propria identità non è evidente, mentre nelle relazioni offline nella maggior parte dei casi sappiamo con precisione con chi ci stiamo rapportando.
  • Self-disclosure: sui Social Network è molto più probabile rivelare aspetti e temi privati, rispettoa quando ci si confronta direttamente con le persone (online 80% vs offline 30%)
  • Forma: lunghezza del messaggio e tipo di contenuto (scritti, video, fotografie, ecc.)

 

Perché si usano i Social Network?

 

 

Le due motivazioni principali che spingono le persone all’utilizzo di queste piattaforme sembrano essere la possibilità di connettersi agli altri e quella di gestire l’impressione che si fa sugli altri attraverso la pubblicazione di post, reazioni e commenti.

Anche dal mondo delle neuroscienze negli ultimi anni sono arrivate conferme in questo senso: i circuiti cerebrali coinvolti nell’utilizzo dei Social Media, infatti, sarebbero gli stessi che vengono attivati dalla cognizione sociale:

  1. Network della mentalizzazione, che coinvolge la corteccia prefrontale dorsomediale, la giunzione temporoparietale, il lobo temporale anteriore, il giro frontale inferiore e la corteccia cingolata posteriore
  2. Sistema autoreferenziale: corteccia prefrontale mediale e corteccia cingolata posteriore
  3. Network della ricompensa sociale: corteccia prefrontale ventromediale, striato ventrale e area tegmentale ventrale

 

 

Uso dei Social Network e implicazioni patologiche

 

 

Nonostante le molte differenze tra i due tipi di ambiente, sembrerebbero esistere delle continuità tra i comportamenti. Uno studio condotto dal National Centre on Addiction and Substance Abuse (2011) ha rilevato che gli adolescenti che spendono più tempo sui Social Network sono 5 volte più inclini a fumare, 3 volte più inclini a bere alcol e 2 volte più inclini a fumare cannabis.

Esistono 5 tipologie di dipendenze comportamentali legate al mondo del web:

  1. Computer Addiction (dipendenza dai giochi online)
  2. Information overload (dipendenza da web surfing)
  3. Cybersexual addiction (dipendenza da pornografia e sesso online)
  4. Net compulsions (dipendenza da gioco d’azzardo e shopping online)
  5. Cyber-relationship addiction (dipendenza dalle relazioni online)

La problematica psicologica che si lega all’uso dei Social Network è legata all’ultimo tipo di dipendenza, cioè quella che fa riferimento alle relazioni online. Ciò richiama il fatto che, nella dipendenza da Social Network, il comportamento da cui l’individuo è dipendente non è l’utilizzo in sé della piattaforma, ma la relazione con gli altri che si instaura attraverso il sito in questione.

La persona quindi, ha una estrema necessità di pubblicare e ricevere feedback al fine di costituire la propria stabilità personale, in quanto si riconosce a livello identitario solamente attraverso lo specchiarsi nello sguardo altrui, che è proprio costituito dalle azioni che seguono il proprio post.

Cambiamenti cerebrali e dipendenza da Social Network

Uno dei circuiti cerebrali maggiormente coinvolto nelle dipendenze è il sistema della gratificazione, che elabora i comportamenti adattivi diretti a uno scopo, attivati da eventi ambientali o da risposte corporee. Questo sistema è responsabile degli effetti positivi e piacevoli della gratificazione naturale e della piacevolezza delle sostanze e dei comportamenti di abuso/dipendenza.

Il sistema della ricompensa coinvolge:

  1. Nucleo Accumbens: elaborazione della ricompensa che motiva il comportamento, incluso il comportamento problematico
  2. Amigdala: collegamento dei segnali ambientali (uso Social Network) ai sistemi neurali del rinforzo negativo (il sollievo da una condizione di avversione come il ritiro), così come nella ricompensa positiva e nella ricompensa da aspettativa, come quelli mediati dal Nucleo Accumbens
  3. Corteccia Mediocingolata (regione dorsale della ACC): autocontrollo e processi inibitori in risposta all’impulso

La Social Network Addiction sembrerebbe comportare differenze strutturali in questo sistema, in particolare una diminuzione della sostanza grigia nell’amigdala (responsabile della sensibilizzazione del sistema della ricompensa e della “potatura” neuronale) a fronte di un aumento sostanza grigia nella corteccia mediocingolata e nella corteccia cingolata anteriore (che significa che il controllo inibitorio è preservato da decadimento). Non viene rilevata alcuna differenza nel nucleo accumbens.

I soggetti con dipendenza da internet sembrano avere una prestazione peggiore nei compiti che richiedono l’apporto della corteccia prefrontale e del ciontrollo esecutivo, e in particolare emergono deficit nel decision making: scelte più svantaggiose e rischiose anche dopo esplicitazione delle regole, minore flessibilità cognitiva e difficoltà di inibizione.

Inoltre, emerge una peggiore performance nei compiti di inibizione e di working memory rispetto ai controlli. Nel caso di stimoli il cui significato è legato a internet, però, i soggetti hanno mostrato una migliore performance di WM. In particolare, rispondevano velocemente alle parole il cui significato era legato a internet (stimolo saliente) ma avevano più difficoltà nell’inibizione della risposta.

 

 

Conclusioni

 

In definitiva, sembra ormai evidente che in correlazione alla dipendenza da Social Network avvengano cambiamenti strutturali e funzionali del cervello, in particolare nella corteccia prefrontale. È importante che tale problematica sia considerata una patologia a se stante, con differenze dalle altre forme di dipendenza.

 

 

Bibliografia

Brand, M., Young, K. S., & Laier, C. (2014). Prefrontal control and Internet addiction: a theoretical model and review of neuropsychological and neuroimaging findings. Frontiers in human neuroscience8, 375.

Turel, O., He, Q., Xue, G., Xiao, L., & Bechara, A. (2014). Examination of neural systems sub-serving Facebook “addiction”. Psychological Reports115(3), 675-695.

He, Q., Turel, O., & Bechara, A. (2017). Brain anatomy alterations associated with Social Networking Site (SNS) addiction. Scientific Reports7, 45064.

Heilig, M., Epstein, D. H., Nader, M. A., & Shaham, Y. (2016). Time to connect: bringing social context into addiction neuroscience. Nature Reviews Neuroscience17(9), 592.

Meshi, D., Tamir, D. I., & Heekeren, H. R. (2015). The emerging neuroscience of social media. Trends in cognitive sciences19(12), 771-782.

Nie, J., Zhang, W., Chen, J., & Li, W. (2016). Impaired inhibition and working memory in response to internet-related words among adolescents with internet addiction: A comparison with attention-deficit/hyperactivity disorder. Psychiatry research236, 28-34.

La relazione : l’uomo è un animale sociale?

La relazione : l’uomo è un animale sociale?

La relazione. L’uomo è un animale sociale?

Già Aristotele nel IV secolo a.C. ha affermato la tendenza dell’essere umano alla socialità. Siamo per natura portati a stare in contatto con l’altro, che addirittura è parte essenziale del definirsi della nostra identità.

Questi ultimi due anni passati con le restrizioni da Covid-19 ci hanno permesso di comprendere quanto lo stare insieme agli altri sia un aspetto fondamentale della nostra vita.

In effetti, se in passato si credeva che il cervello fosse prevalentemente razionale e logico, da qualche anno a questa parte la ricerca nell’ambito delle neuroscienze e della psicologia ha confermato che l’essere umano è un animale sociale, e che il nostro comportamento e la nostra identità sono strettamente costruiti sul rapporto con l’altro. Addirittura, la la ricerca è arrivata alla conclusione che lo sviluppo cerebrale che ci ha trasformati da primati a uomini non sia solo la conseguenza del miglioramento dei processi di ragionamento, ma più che esso sia avvenuto seguendo il filo del gioco sociale: il nostro cervello è cresciuto sulla base della necessità di comprendere, interpretare e prevedere come si sarebbero comportati i nostri simili.

Uno degli aspetti più importanti della #socialità è quello di farci sentire l’appartenenza a un gruppo (per saperne di più sulle dinamiche di gruppo, ne abbiamo parlato qui). Un gruppo può essere definito come un insieme di persone che interagiscono tra loro con una certa regolarità. Le interazioni tra i componenti del gruppo si fondano su una serie di aspettative circa il comportamento dei membri, forme di comportamento che non si richiedono a chi non appartiene al gruppo in questione.

 

 

Il cervello sociale 

 

Quali sono le aree cerebrali che ci consentono di entrare in relazione con gli altri?

Come per tutte le abilità cognitive, è molto complicato stabilire quali aree specifiche del nostro cervello costituiscono il substrato neurale di una funzione. Ancora di più lo è per una capacità complessa come la socialità. Il cervello sociale si sovrappone per larga parte con il cervello emotivo, ed è molto difficile distinguere tali funzioni. Questo è un indice di quanto il nostro rapporto con l’altro sia mediato dalle emozioni.

Ecco alcuni dei protagonisti dell’elaborazione dei processi sociali:

  • Amigdala: strettamente connessa con la corteccia cerebrale, risponde alle espressioni emotive degli altri, siano esse positive o negative
  • Ipotalamo: si attiva quando gli altri ci respingono
  • Corteccia cingolata anteriore: rileva le situazioni rilevanti, per le quali c’è la necessità di agire, reagisce al dolore fisico, ma anche a quello sociale
  • Corteccia orbitofrontale e prefrontale ventromediale: racchiudono la personalità dell’individuo, e sono fondamentali per il ragionamento sociale
  • Nucleo accumbens: si attiva per la ricompensa, cioè per qualcosa che ci provoca piacere come carezze, baci, sorrisi, pacche amichevoli sulle spalle
  • Solco temporale superiore: identifica gli obiettivi altrui, prende in considerazione la prosepttiva degli altri, soprattutto attraverso lo sguardo
  • Insula: raccoglie le sensazioni viscerali, collegate ai nostri stati emotivi, comprsi quelli elicitati dall’altro

 

 

Quando inizia la relazione?

 

Nel passato si pensava che la capacità relazionale si sviluppasse nel bambino in seguito ad altre abilità più basilari. Anche le emozioni sociali, cioè quelle che dipendono dal rapporto con un’altra persona, si pensava emergessero in seguito alle emozioni di base.

Le evidenze scientifiche più recenti, però, ci hanno mostrato come l’intersoggettività sia una caratteristica intrinseca dell’essere umano, tanto che già nei feti gemelli se ne possono osservare le prove.

Fino a pochi anni fa, era diffusa la convinzione che i movimenti del feto fossero completamente casuali. Nel 2010, però, uno studio tutto italiano ha osservato i movimenti di feti gemelli nell’utero materno, facendo delle scoperte affascinanti e dimostrando che la predisposizione alla socializzazione emerge addirittura prima della nascita!

Già a partire dalla quattordicesima settimana di gestazione, infatti, è stato possibile osservare come i due gemelli mettessero in atto dei movimenti intenzionalmente rivolti verso il fratello, e come i gesti di esplorazione del corpo dell’altro fossero maggiori rispetto all’esplorazione del proprio corpo. Tali movimenti, inoltre, differiscono da quelli effettuati verso le pareti dell’utero.

 

Stare con l’altro nella post-modernità

 

L’epoca post-moderna ha visto il proliferare della tecnologia, tra cui una delle più importanti è sicuramente internet.

In questi giorni, quasi tutti noi stanno sperimentando in prima persona la facilità di connettersi con i propri amici e parenti tramite le varie chat e videochiamate, e questa soluzione ci sta salvando dall’isolamento che avremmo provato chiusi nelle nostre case.

Se noi adulti viviamo con stupore questo cambiamento nella nostra modalità di socializzazione, per gli adolescenti il modo di vivere le relazioni è intrinsecamente legato al mondo del web. L’uso di internet può rinforzare i legami individuali e favorire lo sviluppo di competenze sociali e professionali, anche se una minoranza di ragazzi potrebbero sviluppare disturbi legati proprio all’abuso di internet.

I Massively Multiplayer Online Role-Playing Games (MMORPGs) sono giochi online in cui gli individui sviluppano un personaggio, competono e interagiscono con altri giocatori senza limitazioni di spazio o tempo. Anche se questi giochi possono essere associati con la dipendenza da Internet, hanno anche delle caratteristiche positive, come quella di favorire il contatto sociale, che si va ad aggiungere alle relazioni faccia a faccia.

Il gruppo di gioco, spesso composto dagli amici della vita reale, che si crea in queste attività può essere un fattore che diminuisce la probabilità di sviluppare una Internet Addiction, se comparato con il comportamento del giocatore solitario. Il giocare insieme ai propri compagni di classe, infatti, potrebbe costituire un argomento di confronto e di gioco condiviso tra gli adolescenti, riducendo l’isolamento caratteristico delle Dipendenze da Internet.

 

 

 

L’isolamento sociale 

 

Il ritiro sociale o l’impossibilità di passare del tempo con le altre persone rappresentano una caratteristica di parecchi disturbi psichici, a dimostrazione del fatto che l’inter-relazione è una peculiarità dell’essere umano.

In particolare, molte evidenze scientifiche mostrano come l’isolamento sociale abbia ripercussioni negative per l’invecchiamento in salute. Le attività di socializzazione si pongono infatti come protettive rispetto allo sviluppo di patologie neurodegenerative, in quanto permettono da una parte di ricevere maggiori stimoli a livello cognitivo, dall’altra di mantenere un migliore tono dell’umore. La socialità, unitamente all’attività fisica e mentale adeguata, è quindi un fattore decisivo per l’invecchiamento attivo.

Uno studio pubblico nel 2019 e svolto nella regione Marche ha analizzato l’effetto del coinvolgimento di anziani sani in attività di “social farming” sulla salute generale. Le attività proposte sfruttano il lavoro con animali e piante tipico di una fattoria, al fine di veicolare servizi sociali ed educativi. Lo studio mostra come la partecipazione al programma di social farming abbia consentito ai partecipanti di aumentare il proprio network di contatti sociali, che spesso sono stati accresciuti e mantenuti anche al di fuori delle attività.

 

 

Questo breve excursus sulla socialità ci ha permesso di osservare come la relazione con l’altro sia fondamentale in tutte le tappe dello sviluppo umano, da prima della nascita fino all’anzianità. Ovviamente, l’intersoggettività è legata strettamente con il mondo emotivo, ma di questo aspetto ci occuperemo prossimamente in un altro articolo sul blog!

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