La lettura “medicina dell’anima”

La lettura “medicina dell’anima”

Sopra la porta della prima biblioteca del mondo, a Tebe, la tradizione vuole che vi fosse questa iscrizione “La medicina per l’anima”. Che leggere faccia bene non è una novità.  Diversi studi rilevano l’importanza della lettura per il corpo e la mente. 

 

Vediamo qui di seguito i benefici più importanti:

Migliora la concentrazione leggere per 15-20 minuti è un buon allenamento per la nostra attenzione. Con la lettura, il resto del mondo rimane fuori e ci si ritrova immersi in ogni dettaglio;

Migliora il linguaggio a qualunque età più si legge e più si imparano nuovi vocaboli con una ricaduta positiva sulla capacità nell’espressione orale;

Migliora la scrittura  più si legge e più si diventa fluidi nella produzione scritta anche grazie all’influenza degli stili espressivi di altri scrittori;

Migliora il pensiero  la capacità critica e analitica del pensiero vengono stimolate durante la ricerca dei dettagli come ad esempio all’interno di un libro giallo;

Aumenta la conoscenza  qualunque lettura è un tassello che si aggiunge al proprio bagaglio culturale, ampliandolo;

Migliora la memoria  mentre si legge un libro si devono tenere a mente numerosi elementi. I personaggi e i dettagli della trame creano un unico intreccio. Ricordare tutti questi aspetti permette di generare nuove sinapsi rafforzando al contempo quelle già esistenti;

Stimola la mente leggere rappresenta un fattore protettivo contro le demenze; il cervello come i muscoli del corpo ha bisogno di rimanere in movimento!

Allevia lo stress un libro può aiutare a vivere più sereni. Uno studio condotto dall’Università del Sussex rileva il potenziale anti-stress della lettura: leggere 6 minuti al giorno riduce la tensione muscolare e la frequenza cardiaca!

Sappiamo che leggere faccia bene per molte ragioni, una tra queste è legata all’aumento di connessioni che la lettura genera. 

Ma fino a che punto leggere un romanzo modifica le connessioni cerebrali? 

Nel 2013 è stato condotto uno studio presso la Emory University in cui è stato chiesto ai partecipanti di leggere per 9 sere trenta pagine di un romanzo. Ogni mattina, a mente riposata, gli stessi soggetti venivano sottoposti a risonanza magnetica funzionale. 

Cosa hanno rilevato gli studiosi? Hanno riscontrato un aumento di connettività in due aree:

  • A livello del solco centrale del cervello (un’area che separa la corteccia motoria da quella sensitiva). 

L’attivazione di quest’area si spiega come se la lettura fosse uno specchio in cui guardarsi. I movimenti realizzati dai personaggi dei libri attivavano nel cervello dei lettori le stesse aree che si sarebbero attivate se avessero svolto in prima persona quei movimenti. Quest’area del cervello è infatti importante nel rilevare le sensazioni corporee e negli aspetti connessi all’empatia. 

  • A livello del lobo temporale sinistro (un’area associata al linguaggio). 

La maggior connettività cerebrale riscontrata viene spiegata come un effetto della lettura della sera precedente. Tale effetto è stato definito dai ricercatori “effetto ombra”. L’impronta della lettura permane nel cervello fino a cinque giorni dopo che la lettura è finita, ma se il libro che abbiamo letto ci è piaciuto particolarmente può rimanere più a lungo. 

Leggere mantiene il cervello giovane.

Questo è quanto è emerso da una ricerca pubblicata su Neurology in cui la lettura sembra essere in grado di modificare il cervello mantenendolo giovane. 

I ricercatori hanno analizzato post mortem il cervello di 294 ottantenni e dalle analisi è emerso che il declino cognitivo era inferiore nel cervello delle persone che leggevano o che erano dedite ad attività di stimolazione del ragionamento. 

Ma non solo, la lettura è un fattore protettivo nei confronti della demenza. Sappiamo che l’avanzare dell’età espone a particolari fattori di rischio che si associano alla demenza: diabete, ipertensione, obesità, fumo di sigarette, depressione, inattività cognitiva e basso livello di istruzione.

Uno studio longitudinale condotto su 983 soggetti suddivisi tra analfabeti e istruiti (coloro che avevano almeno 4 anni di scolarità) ha rilevato che gli analfabeti hanno una probabilità tre volte superiore di ammalarsi di demenza e tra di loro le donne sono maggiormente esposte allo sviluppo della patologia. 

Sembra proprio che una stimolazione cognitiva continua, esercitata con lo studio, sia fondamentale per mantenere una mente attiva. 

La lettura rientra quindi a pieno titolo tra i fattori di protezione che contrastano l’insorge della demenza!

Meglio la lettura su carta o su schermo?

E’ in corso, ormai da diverso tempo una diatriba tra la lettura digitale e quella su carta stampata. In effetti scegliere quale supporto utilizzare, per un passatempo così importante, non è secondario.

La letteratura, su questo argomento, considera il supporto cartaceo migliore di quello digitale per diversi motivi. Vediamone alcuni nel dettaglio.

  • Innanzitutto sembrerebbe che la lettura su carta faciliti la comprensione e la memorizzazione del testo. Tendiamo a ricordare di più e meglio quello che leggiamo su un libro. 
  • Il supporto cartaceo è in grado di favorire una maggiore concentrazione mentre la lettura su dispositivi spesso è più veloce e frammentaria. Il passaggio da un link all’altro non permette una completa assimilazione del contenuto letto. 
  • Inoltre le persone tendono a mettere in atto un bias cognitivo considerando il contenuto su dispositivi meno importante rispetto a quello su carta. Questo sarebbe causato dalla tendenza ad associare ai device elettronici notizie di poco conto come quelle che spesso si scambiano sui social. 
  • Infine i supporti cartacei consentono il contatto con la carta, permettendo di sfogliare le pagine e di percepire le parole come oggetti fisici. Queste azioni sembrerebbero agevolare l’orientamento all’interno del testo consentendo di ricordare i concetti di interesse. 
L’isteria ai giorni nostri

L’isteria ai giorni nostri

Nella seconda metà dell’800, l’isteria era considerato il disturbo nevrotico più comune tra le donne (Micale, 1993) ma oggi non possiamo dire la stessa cosa. Le forme drammatiche, convulsive e polisintomatiche osservate da Charcot e da Fredu oggi sono considerate delle vere e proprie rarità.

La paralisi psicogena, uno dei sintomi più emblematici dell’isteria ottocentesca, diventò gradualmente sempre più rara. Tra il 1969 e il 1976 all’Istituto Psichiatrico di Toronto furono diagnosticati solo 31 casi di “nuerosi isterica” e di questi solo 9 mostravano paralisi.

L’isteria oggi si declina per lo più in forme patologiche come la depressione, malattie psicosomatiche o alterazioni del carattere (Galimberti, 1990). Si è assistito a una progressiva scomparsa del sintomo isterico tradizionale, ma non della ragione intrinseca per cui questo si manifestava.

L’isteria, dunque, è da intendersi oggi come un linguaggio particolare piuttosto che una patologia in grado di veicolare messaggi senza passare dal canale verbale.

La scomparsa dell’isteria così come intesa da Freud viene attribuita al mutamento dei fattori psicologici, sociali e culturali di un’epoca storica passata. Pensiamo solo a come sono cambiate negli anni le condizioni delle donne all’interno della società e l’approccio alla sessualità.

Il termine isteria oggi è sopravvissuto nel linguaggio comune come insulto sessista utilizzato nei confronti di chi si mostra irascibile o in preda alle emozioni.

“Alla mia età non posso fare niente per cambiare”…ma è proprio vero?

“Alla mia età non posso fare niente per cambiare”…ma è proprio vero?

“Alla mia età non posso fare niente per cambiare”…ma è proprio vero?

L’Italia è uno dei paesi europei in cui l’indice di anzianità è più alto, attestandosi a 165,3%, con il 22% della popolazione che ha superato i 65 anni. Sebbene al giorno d’oggi la visione dell’invecchiamento di sta modificando, e le persone sono sempre più in salute anche in tarda età, è innegabile che nel corso dell’invecchiamento si diventi più vulnerabili. Tale vulnerabilità è dovuta a importanti modificazioni biolgiche, sociali e psicologiche che aumentano la probabilità per la persona anziana di sviluppare condizioni polipatologiche, in particolare a carattere cronico-degenerativo, e alla manifestazione di quadri psicopatologici, quali depressione, disturbi d’ansia, sintomi somatici.

Per esempio negli ultrasessantacinquenni l’incidenza della depressione è molto alta, e si attesta al 20% tra coloro che risiedono a domicilio, per salire al 30% tra gli anziani ricoverati in ospedale e addirittura al 45% tra gli ospiti delle RSA. Se i giovani hanno davanti a sé un futuro da costruire e, chi più chi meno, un’ampia gamma di possibilità da vivere, l’anziano si trova spesso a fare i conti con una diminuzione, biologica, del tempo a propria disposizione nella vita e, soprattutto, con un restringimento delle possibilità d’azione nel mondo.

 

Quali temi critici nell’anziano?

Per esempio, è frequente che le persone anziane vivano delle esperienze di perdita di vario tipo: di persone care (lutti), del proprio ruolo sociale (pensionamento) della funzionalità fisica e della propria indipendenza (difficoltà motorie, perdita della patente di guida). Altri temi tipici possono essere quelli legati al presentarsi di condizioni patologiche e al caregiving, più frequenti nel corso del procedere dell’arco di vita.

Spesso le manifestazioni psicopatologiche della terza età si differenziano da quelle che esordiscono più precocemente nell’arco di vita. Negli stati depressivi, per esempio, sono maggiormente presenti sintomi quali agitazione, disturbi gastrointestinali, affaticamento, alterazioni cognitive, preoccupazioni relative alla disabilità, alla malattia e alla morte. Altra complicazione che interviene nel processo diagnostico è riferita all’imponente componente somatica, che spesso si sovrappone alla sintomatologia riferita a patologie in comorbidità. Specifica attenzione poi andrebbe posta al presentarsi di problematiche cognitive, in particolare riferite alle abilità mnesiche e attentive, che spesso possono essere legate alla presenza di stati ansiosi o depressivi piuttosto che all’insorgenza di disturbi neurodegenerativi a carattere dementigeno.

Quando viene proposto un percorso psicologico a una persona anziana, accade spesso, però, di sentire la frase:Ma alla mia età, cosa vuole che possa cambiare!”, come se si desse per scontato che l’invecchiamento porti con sé una sorta di immutabilità. In realtà, a prescindere dall’approccio psicoterapeutico adottato, molteplici sono le evidenze dell’efficacia del sostegno psicologico in età avanzata. Tale efficacia sembra essere intrinsecamente legata alla costruzione di uno spazio di cura individualizzato sui bisogni della persona e sulle peculiarità culturali presenti negli individui anziani. Tutto ciò può consentire alla persona di aprire nuovi spazi di esperienza, allargando di fatto le proprie possibilità d’azione nel mondo. Per esempio, diventa essenziale valorizzare le storie personali, i rapporti con i nipoti e la frequentazione di realtà che possano rendere le tematiche da critiche a utili.

Come promuovere una cura psicologica nell’anziano?

Per far fronte all’effettiva aumentata vulnerabilità dell’invecchiamento, di primaria importanza appare l’implementazione di interventi preventivi, come campagne di formazione/informazione territoriali, volti alla promozione della salute e del benessere degli anziani, soprattutto presso strutture che raccolgono soggetti ad alto rischio, quali ospedali e case di riposo. 

Rimane tuttavia una cultura dominante in cui sono presenti parecchi falsi miti sull’invecchiamento. Eccone qualcuno:

  1. Invecchiare vuol dire perdere abilità
  2. È normale che una persona anziana sia depressa
  3. La psicoterapia è inefficace durante la terza età

Per poter permettere alle persone anziane di accedere alla cura non solo medica, ma anche psicologica, è di primaria importanza promuovere una nuova visione dell’invecchiamento, in cui la terza età sia vista come un momento di cambiamento, sì, ma che porta con sé un’evoluzione in cui la salute, sia fisica che psichica, non solo è possibile ma anche e soprattutto molto frequente.

Bibliografia

Anderson, D., & Wattis, J. (2014). Psychotherapeutic approaches to the elderly: Part One. Geriatric Medicine44, 31-33.

Atiq, R. (2006). Common Themes and issues in Geriatric Psychotherapy. Psychiatry (Edgmont)3(6), 53.

Ballerio, M., Damiani, S., Grazioli, L., Panigati, R., Vanini, B., Veglia, T. A., … & Politi, P. (2013). Psicofarmacoterapia nel paziente anziano istituzionalizzato: un’indagine epidemiologica. Bollettino della Società Medico Chirurgica di Pavia,126(1), 167-174.

Lane, C. (2007). Geriatric mental health and the concept of in home psychotherapy. Presented at: NACSW Convention 2007 March 2007 Dallas, TX

Vampini, C, Bellantuono, C., (2002). La terapia dell’ansia e della depressione nell’anziano. NÓOς 1, 7-46.

Che cos’è la coscienza?

Che cos’è la coscienza?

Che cos’è la coscienza?

 

La coscienza è stata definita come la “consapevolezza di sè, degli altri e dell’ambiente che ci circonda, quindi essere presenti per sè e per gli altri e rispondere agli stimoli” (Cohadon & Salvi, 2003).

La coscienza comprende due componenti:

  • un contenuto, rilevato dalle funzioni cognitive e affettive
  • lo stato di veglia (arousal)

Il contenuto della coscienza è quello che i neurologi chiamano consapevolezza e dipende dallo stato di veglia: non ci può essere un contenuto senza arousal, tuttavia un normale stato di veglia non garantisce la presenza di un normale contenuto. Lo stato di coscienza ha caratteristiche dinamiche e può avere un’ampia gamma di livelli non classificati in modo univoco. Solo per citarne alcuni, gli stati alterati di coscienza comprendono lo stato di coma, di sonno, di sonnambulismo o lo stato alterato indotto da sostanze.

 

Basi neurali della coscienza

Abbiamo visto come per coscienza si intenda sia uno stato fisiologico (lo stato di veglia) sia la consapevolezza soggettiva che abbiamo del mondo e di noi stessi. Lo studio dello stato di veglia rientra pienamente nel filone convenzionale della ricerca neurobiologica che è stata in grado di identificare, quindi, i substrati neuroanatomici e i processi fisiologici alla base. La coscienza intesa come consapevolezza e autoconsapevolezza solleva questioni filosofiche complesse e controverse e, dunque, è molto più difficile da studiare con le tecniche delle neuroscienze cognitive.

Le ricerche in questo ambito si sono concentrate sullo studio della percezione visiva consapevole nei soggetti normali e sullo studio di pazienti con diverse condizioni patologiche. La consapevolezza di stimoli sensoriali visivi prevede una modesta modulazione dell’attività da parte delle cortecce sensoriali e delle cortecce parietali e frontali che sostengono l’attenzione e tante altre funzioni cognitive. La ricerca su pazienti con patologie legate alla consapevolezza, per quanto importanti dal punto di vista clinico, non hanno portato ad alcun consenso sulla natura della coscienza.

Gli sforzi tesi a identificare le basi neurali della coscienza non hanno ancora prodotto risultati certi tanto che alcuni scienziati sono stati attratti dall’idea che la coscienza umana possa dipendere da un meccanismo le cui basi vanno al di là del pensiero convenzionale!

 

La coscienza nel corso dello sviluppo

Quando possiamo dire che i bambini hanno consapevolezza di sè?

Per studiare lo sviluppo della coscienza nei bambini è stato messo a punto dai ricercatori un paradigma sperimentale noto come “test della macchia rossa”; senza che se ne accorgano si colora di rosso il naso o la fronte del bambino e si osserva la sua reazione una volta messo davanti a uno specchio.
Intorno ai 18 mesi, mai prima dei 15, i bambini cominciano a riconoscersi allo specchio: si toccano il viso nel punto in cui c’è la macchia e mostrano stupore per la sua presenza.

Con lo sviluppo del linguaggio arriveranno altre conquiste nell’ambito dell’autoconsapevolezza. I bambini cominciano ad utilizzare i pronomi personali e possessivi come “io”, “tu” o “mio” e a provare emozioni morali come l’orgoglio o la vergogna.

Verso i 2 anni sono in grado di riconoscersi in fotografia!

 

Disturbi dello stato di coscienza

I disturbi dello stato di coscienza possono essere raggruppati in 3 categorie:

  • i disturbi qualitativi della coscienza, come il delirium
  • i disturbi quantitativi della coscienza, come il coma;
  • i disturbi della coscienza soggettiva che comprendono gli stati di depersonalizzazione.

 

Il delirium

Il delirium, o stato confusionale, è una sindrome clinica generalmente transitoria e reversibile contraddistinta dall’alterazione della consapevolezza, dell’attenzione e dal disorientamento temporale e spaziale. Possono essere presenti anche alterazioni percettive come interpretazioni errate della situazione, illusioni e allucinazioni.

Questo tipo di alterazione si sviluppa di solito in un periodo di tempo molto breve e tende a fluttuare nel corso della giornata, con peggioramento nelle ore serali. È la conseguenza di una condizione medica sottostante, dell’intossicazione o dell’astinenza da sostanze, dall’uso di un farmaco, dall’esposizione a una tossina o dalla combinazione di questi fattori.

Il delirium colpisce maggiormente gli individui più anziani e ospedalizzati e raggiunge una prevalenza del 14% tra le persone con più di 85 anni. La prevalenza è tra il 10 e il 30% nei soggetti anziani che si rivolgono al pronto soccorso. L’ospedalizzazione aumenta l’incidenza del #delirium che si aggira intorno al 70 % negli anziani in terapia intensiva (DSM 5).

La maggior parte delle persone con delirium mostrano un recupero completo, ovviamente il riconoscimento precoce e un trattamento mirato riducono la sua durata. Se, però, la causa sottostante non viene trattata il delirium può, in alcuni casi, progredire fino al coma.

Il coma

Il coma probabilmente è il disturbo più noto, si tratta di una condizione clinica complessa causata da un’alterazione del funzionamento cerebrale che compromette lo stato di coscienza: i pazienti non rispondono agli stimoli e non sono consapevoli di sè o degli altri. Anche nei casi più gravi, però, i neuroni sono vivi e il segnale elettrico che emettono può essere rilevato dall’elettroencefalogramma. Il coma è una condizione dinamica che può peggiorare ma anche migliorare. Una possibile evoluzione del coma è lo stato vegetativo che si caratterizza sempre per l’assenza della consapevolezza di sè e degli altri, ma è rilevabile uno stato di veglia. I pazienti in questo stato possono aprire e muovere gli occhi, deglutire e respirare autonomamente e mantenere l’alternanza sonno-veglia. Possono essere in grado di compiere alcuni automatismi motori come sbadigliare, ma non sono in grado di seguire con lo sguardo stimoli visivi o eseguire anche i più semplici ordini verbali.

I disturbi dissociativi

Infine, tra i disturbi della coscienza soggettiva troviamo i disturbi dissociativi.
Si caratterizzano per una disconnessione e/o una discontinuità della normale integrazione di coscienza, memoria, identità, emotività, percezione, rappresentazione corporea, controllo motorio e comportamento.
I sintomi, che potenzialmente possono colpire qualunque area del funzionamento psicologico, sono vissuti come:

  • intrusioni non volute nella coscienza e nel comportamento, unite a perdite della continuità dell’esperienza soggettiva;
  • incapacità di accedere a informazioni o di controllare funzioni mentali che in genere sono facilmente accessibili o controllabili.

Il DSM 5 inserisce tra i disturbi dissociativi:

  • il disturbo dissociativo dell’identità
  • l’amnesia dissociativa
  • il disturbo di depersonalizzazione/derealizzazione

Questi disturbi si riscontrano frequentemente nel periodo successivo a un forte trauma. Sintomi dissociativi come depersonalizzazione (esperienze di irrealtà e distacco, di essere un osservatore esterno rispetto ai propri pensieri o azioni) e derealizzazione (esperienza di irrealtà rispetto all’ambiente circostante) non identificano necessariamente un grave disturbo mentale. Possono essere dei fenomeni transitori e comuni nella popolazione generale. Si tratta di reazioni normali in persone normali di fronte a avvenimenti anomali, come per esempio un incidente stradale.

 

 

Decision making. Cosa si nasconde dietro alle nostre scelte?

Decision making. Cosa si nasconde dietro alle nostre scelte?

Decision making. Cosa si nasconde dietro alle nostre scelte?

Il “decision making” è quella qualità umana che consente di risolvere problematiche complesse prendendo la decisione più efficace attraverso una valutazione cosciente e ponderata delle possibili alternative di azione. 

La decisione, da parte di un individuo, implica un comportamento volontario e intenzionale che fa seguito a un ragionamento. Nella maggior parte dei casi prendere decisioni significa ragionare in condizioni di incertezza: non riusciamo a prevedere con certezza l’esito futuro delle possibili alternative a disposizione, ma nella migliore delle ipotesi riusciamo soltanto a stimare la probabilità di tali esiti. 

Le distorsioni del pensiero influenzano le nostre scelte

 

Si è soliti credere che la capacità di prendere decisioni corrette ed efficaci si fondi sulla razionalità: maggiore è la capacità di analizzare i fattori di una situazione e maggiore sarà la capacità di prendere decisioni corrette ed efficaci. In realtà questa visione è un retaggio culturale proveniente dall’Illuminismo in cui si decretava il “trionfo della ragione”. Nel corso del 900 studi di economisti che analizzavano i comportamenti degli investitori hanno messo in discussione questo paradigma. Questi infatti non rispondevano alla logica della razionalità perfetta operando degli errori ricorrenti non imputabili semplicemente a distrazione o mancanza di informazioni.

 

Quali sono dunque i fattori di distorsione che influenzano il nostro pensiero?

  • Memoria e attenzione : le decisioni future sono influenzate dal ricordo delle decisioni precedenti che influenzano la percezione del problema attuale;
  • Confronto tra le opzioni: le opzioni scelte in precedenza ci risultano migliori;
  • Carico percettivo: in condizioni di pressione siamo portati a compiere scelte impulsive;
  • Soggettività : soggetti decisori, in generale, smettono di cercare opzioni alternative o ulteriori informazioni quando pensano di avere già in mano del materiale soddisfacente;
  • Caratteristica degli stimoli: il modo e la tempistica con cui vengono presentati i problemi o le opzioni di scelta influenza la valutazione che il soggetto decisore ne da.

Cosa possiamo fare per migliorare il nostro decision making nel quotidiano? Sicuramente è utile approfondire i seguenti aspetti:

  • Conoscere i meccanismi che regolano il processo decisionale approfondendo la conoscenza delle funzioni cognitive;
  • Acquisire consapevolezza della propria componente emotiva poiché questa influenza l’analisi del problema e la conseguente scelta.

Qualora riscontriamo delle difficoltà rivolgersi a degli esperti può essere utile per approfondire le molte sfaccettature degli stili decisionali presenti nella nostra vita.

La saggezza dei più piccoli

 

Secondo uno studio condotto presso la Waterloo University, i bambini a partire dai 6 anni analizzano le situazioni cogliendo le stesse informazioni di un adulto, ovvero secondo una modalità di risparmio.

Che cosa accade dunque nei più piccoli? 

Nello studio sono stati valutati 288 bambini per determinare se durante la formulazione di giudizi utilizzano informazioni numeriche, sociali o di entrambi i tipi. Nei bambini di 5 anni solo il 70% valuta e decide in base alle sole informazioni sociali, percentuale che si abbassa nei più piccoli. Nei piccoli di 4 anni solo il 45 % giudica in base alle sole informazioni sociali. Per intenderci i bambini più piccoli nel compiere una scelta analizzano la situazione in modo più completo mostrandosi più propensi a prendere in considerazione entrambe le informazioni numeriche e sociali.

Dai 6 anni in poi invece il modo di ragionare è più simile a quello adulto che tende ad utilizzare delle euristiche che altro non sono che delle scorciatoie del pensiero per risolvere un problema. Nel caso dello studio l’euristica utilizzata è quella della rappresentatività utilizzata per classificare oggetti, individui, eventi. Essa impiega gli stereotipi e il criterio della somiglianza. Gli adulti tendono a non usare tutte le informazioni a loro disposizione quando formulano giudizi, probabilmente perché questo richiede l’impiego di molte risorse in termini di tempo ed energie mentali.

Questo studio rivela quindi come l’euristica della rappresentatività si sviluppi durante gli anni prescolari, tra i 4 e i 6 anni, portando i bambini ad una rapida escalation verso il risparmio di risorse cognitive. Un risparmio che molto probabilmente caratterizzerà la formazione di giudizi nella vita adulta.

L’autodeterminazione. La spinta dell’anziano alla scelta

 

L’autodeterminazione è quella capacità di prendere decisioni e di avere controllo sulla propria vita. Essa è un elemento fondamentale per il benessere psicologico di tutti gli individui in modo particolare degli anziani che hanno ancora bisogno di sentirsi utili. Vediamo più da vicino le motivazioni che spingono all’autodeterminazione: 

  • La competenza intesa come imparare e acquisire abilità;
  • Le relazioni intese come il sentire un senso di comunità, di appartenenza;
  • L’autonomia intesa come l’avere il controllo della nostra vita e dei nostri comportamenti.
  • Le motivazioni dunque sono ciò che definisce una scelta e quindi l’autodeterminazione. Le motivazioni possono essere guidate da fattori intrinsechi o estrinsechi.

Il nostro agire ad esempio è legato all’ottenimento di soddisfazioni esterne quali possono essere il denaro, l’ammirazione, i regali. Tra queste vi è anche il riconoscimento sociale che gioca un ruolo chiave nell’anziano. Spesso gli anziani sembrano non accettare i sintomi di non autosufficienza opponendosi fermamente all’idea di ricevere un aiuto. In loro prevale la necessità di mantenere un certo ruolo sociale che non sia intaccato da un’immagine legata ad uno stato di incapacità. Pertanto è importante considerare le motivazioni che l’anziano esprime quando si tratta della sua assistenza. Vi sono casi in cui l’anziano potrebbe rifiutare un aiuto solo per non essere giudicato da altri, oppure potrebbe decidere di essere assistito da una persona del proprio stesso sesso per convinzioni personali sulla moralità.

Le implicazioni in una scelta possono essere molteplici, ma ciò che conta è comprendere che se l’anziano è in grado di intendere e volere ha diritto di esprimere la sua volontà senza che altri si sostituiscano a lui. 

 

Creatività: svilupparla e mantenerla durante l’arco di vita

Creatività: svilupparla e mantenerla durante l’arco di vita

Creatività: svilupparla e mantenerla durante l’arco di vita

La creatività è un’abilità che si manifesta in modalità molto differenti in ogni persona. Essa è comunemente associata alla produzione artistica e letteraria, ma in realtà non rappresenta solo la capacità di dipingere un quadro o di scrivere un pezzo musicale o una poesia, ed è fortemente legata al dominio specifico del compito che dobbiamo svolgere. Si usa la creatività anche nell’ambito scientifico, per scoprire una legge matematica o fisica che spiega il mondo o per esplorare le potenzialità di un farmaco in laboratorio.

Come vedremo, i processi creativi si sviluppano durante l’arco di vita con percorsi discontinui e personali, direttamente dipendenti sia dalle caratteristiche individuali, sia dal contesto ambientale.

Hai mai pensato che potresti essere più creativo di quello che pensi?

 

Che cos’è la creatività?

 

Abbiamo già parlato della creatività in altri articoli, perché è un concetto che ci affascina non poco.

Si definisce come la produzione di efficaci novità. In questa definizione emergono due caratteristiche: la novità e l’utilità, ed è un processo cognitivo che può essere applicato a molteplici domini. Per esempio, può esserci una tipologia di creatività più legata al dominio della conoscenza di un qualche argomento, oppure una creatività associata all’ambito emotivo. Oppure ancora, può essere spontanea oppure seguire un modello di elaborazione più volontario.

La letteratura più recente, in cui si cerca di spiegare la creatività alla luce dei processi cognitivi, mostra come essa sia dominio-specifica e come il rapporto con la conoscenza di base sia specifico per ogni argomento. Per esempio, per dipingere un bel quadro, non è per forza necessario conoscere a fondo la storia dell’arte, perché il processo è maggiormente legato al dominio emotivo ed emerge in modo spontaneo in chi dipinge. Per inventare una formula in grado di spiegare in modo nuovo il mondo, come per esempio nell’ambito della matematica o della fisica, è invece necessario conoscere in profondità l’argomento e applicarsi in un ragionamento volontario.

 

Anche se è chiaro che l’emotività contribuisce in modo consistente, dal punto di vista cognitivo, la creatività può essere declinata in 3 processi:

  1. aprire la mente a un numero più vasto di elementi
  2. connettere, cioè stabilire relazioni tra elementi e combinarli in modo nuovo
  3. riorganizzare, ossia cambiare prospettiva e invertire le relazioni

 

Le età della creatività: dall’infanzia…

 

La nostra età determina dei cambiamenti nel modo di essere creativi. 

 

Nel periodo pre-scolare, si osservano differenze individuali nel pensiero divergente, una delle forme più studiate di creatività. Queste differenze seguirebbero un trend di crescita fino alla prima adolescenza, con dei “crolli” che si verificherebbero a 5, 9 e 12 anni. Sembrerebbe quindi che la creatività si sviluppi in maniera discontinua nell’arco di vita, con dei picchi e dei crolli.

Ma da che cosa dipendono? È davvero possibile rintracciare delle traiettorie comuni di sviluppo?

I risultati di queste ricerche sono apparsi poco replicabili circa l’età esatta dei “crolli”, che parrebbero molto più dipendenti da caratteristiche individuali, culturali e dalle specifiche del compito da portare a termine. Secondo i ricercatori (Barbot et al., 2016), in realtà non è possibile definire una traiettoria di sviluppo della creatività che vada bene per tutti e l’apparente discontinuità nel suo manifestarsi sia dovuta all’asincronicità dello sviluppo delle caratteristiche individuali che sottendono i processi creativi, alle caratteristiche dell’ambiente che permettono la linea di sviluppo della persona e alle caratteristiche dell’attività.

La scuola, per esempio, costituisce un ambiente importantissimo dove i bambini possono imparare a sperimentarsi al di fuori dalla famiglia, già dai primissimi anni di età. È chiaro quindi che le modalità di insegnamento possono influire in modo consistente con lo sviluppo delle abilità creative. A questo proposito, nel primi anni 2000 si è aperta negli ambienti educativi la domanda: è meglio insegnare in modo creativo oppure insegnare ai piccoli a essere creativi?

Il National Advisory Committee on Creative and Cultural Education (Futures, 1999) fa osservare che in realtà i due termini sono strettamente legati tra loro, in quanto insegnare a essere creativi coinvolge l’insegnare creativamente. Viene inoltre sottolineato che le capacità creative dei più piccoli hanno più probabilità di essere sviluppate in un’atmosfera in cui vengono impegnate le abilità creative dell’insegnante stesso.

La risposta è ancora controversa, ma ciò che è chiaro è che, oltre allo stile di insegnamento, è necessario elicitare nei bambini e nei ragazzi delle esperienze di apprendimento che facciano leva sia sulle caratteristiche personali, sia sull’abilità di trarre nuove soluzioni da ciò che viene loro insegnato (Jeffrey & Craft, 2004).

 

 

…alla terza età

 

L’avanzare dell’età, seppur in salute dal punto di vista cognitivo, provoca dei cambiamenti a livello cerebrale, soprattutto nelle aree frontali del cervello, che abbiamo visto essere fondamentali nel coordinamento dei processi creativi.

Secondo l‘ipotesi della riserva cognitiva, le esperienze che facciamo nel corso della vita (educazione, occupazione, attività fisica e mentale, ecc.) permettono al nostro cervello di sviluppare la capacità di mettere in atto strategie alternative per affrontare compiti che sarebbero difficili a causa del cambiamento dovuto all’invecchiamento cerebrale.

Alcuni studiosi (Colombo et al., 2018) hanno mostrato che è possibile rintracciare un legame tra la nostra riserva cognitiva e il ragionamento creativo negli anziani. Entrambi i costrutti coinvolgono infatti l’abilità di riorganizzare i processi di elaborazione delle informazioni in modo flessibile e risulterebbero molto simili tra loro.

Ottimizzare la propria riserva cognitiva durante tutto il corso della propria vita può aiutarci a essere maggiormente flessibili ai cambiamenti da anziani.

 

Lavoro creativo

 

Abbiamo visto le traiettorie di sviluppo della creatività durante l’infanzia e come mantenerla attiva durante la terza età, ma ancora non ci siamo soffermati su come essa si manifesta nell’età adulta. Durante questo periodo dell’arco di vita, trascorriamo gran parte delle nostre giornate nello svolgimento della nostra attività lavorativa ed è a questa sfaccettatura dei processi creativi che vogliamo guardare.

La creatività, infatti, è di vitale importanza anche nel contesto lavorativo, in quanto i lavoratori possono essere una fonte di idee, servizi, prodotti e processi creativi, utili all’innovazione delle organizzazioni. Inoltre, se il lavoratore utilizza attivamente la propria creatività, è ormai noto che esperisce un interessamento migliore al lavoro, una più grande soddisfazione e una maggiore motivazione intrinseca.

Esistono molti fattori che possono stimolare o inibire la creatività individuale sul luogo di lavorro:

  • Caratteristiche individuali: personalità, esperienza, stile cognitivo
  • Caratteristiche del lavoro: livello di stress, tempistiche pressanti, autonomia nel lavoro, presenza di premi
  • Caratteristiche dell’organizzazione: clima, pratiche delle risorse umane

 

In particolare, lo stress esperito dalla persona nell’ambiente lavorativo può essere un fattore chiave per l’inibizione della creatività. Nella maggior parte delle ricerche è stato indagato l’effetto negativo dello stress sui fattori cognitivi che sottendono il processo creativo, ma poca attenzione è stata focalizzata sui correlati fisiologici, che coinvolgono la risposta corporea.

Il nostro corpo, infatti, risponderebbe in maniera differente a situazioni sfidanti o minacciose, e osservare attentamente la reazione fisiologica potrebbe fornire informazioni più approfondite dei semplici questionari self-report utilizzati nel mondo delle organizzazioni. Queste osservazioni, potrebbero fornire nuove informazioni sul legame tra stress e creatività nell’ambiente lavorativo.

 

Dove prende forma la creatività?

 

Nel nostro cervello esiste un certo grado di lateralizzazione emisferica. Questo significa che i due emisferi cerebrali non sono perfettamente simmetrici, ma presentano delle differenze nella struttura, nella configurazione e nelle funzioni svolte.

L’apporto dell’emisfero destro nei processi creativi è stato indagato a fondo nello studio delle neuroscienze. Alcuni studi svolti nel passato hanno permesso di rilevare che, quando ci vengono presentati stimoli reiterati, l’emisfero sinistro mantiene un attività costante, mentre il destro si attiva solo con uno stimolo nuovo. Altre ricerche confermerebbero che il culmine della creatività, la scintilla dell’intuizione (detta insight), avverrebbe in seguito all’attivazione della circonvoluzione temporale destra, confermando la capacità dell’emisfero destro di stabilire connessioni tra diverse classi di informazioni.

In realtà, l’insight costituisce solo il culmine dell’attività creativa, e alla fine dei conti sembra che il cervello sfrutti, in momenti diversi del processo, le caratteristiche di ciascun emisfero, ognuno dei quali contribuisce alla creatività in modo differente.

L’area cerebrale maggiormente coinvolta nel processo creativo è la corteccia prefrontale. Essa è responsabile del ragionamento astratto, della regolazione emotiva e delle intuizioni creative. Infatti, i circuiti neurali coinvolti nell’elaborazione di informazioni che generano combinazioni non creative sono gli stessi che producono combinazioni di informazioni creative o nuove. Le funzioni cognitive, però sono organizzate in modo gerarchico, e la corteccia prefrontale costituisce il top della gerarchia, coordinando le funzioni cognitive superiori. Una volta attivato il processo creativo, essa determina l’intervento delle altre regioni cerebrali necessarie.

L’attivazione della corteccia prefrontale sembrerebbe confermare che entrambi gli emisferi sono coinvolti nel processo creativo, sebbene con ruoli differenti.

 

 

Bibliografia

Barbot, B., Lubart, T. I., & Besançon, M. (2016). “Peaks, slumps, and bumps”: Individual differences in the development of creativity in children and adolescents. New directions for child and adolescent development2016(151), 33-45.

Colombo, B., Antonietti, A., & Daneau, B. (2018). The relationships between cognitive reserve and creativity. A study on American aging population. Frontiers in psychology9, 764.

Futures, A. O. (1999). National Advisory Committee on Creative and Cultural Education. Department for Education & Employment.

Jeffrey, B., & Craft, A. (2004). Teaching creatively and teaching for creativity: distinctions and relationships. Educational studies30(1), 77-87.

 

Privacy Policy