L’effetto ombra. L’impronta della lettura nel cervello

L’effetto ombra. L’impronta della lettura nel cervello

Sappiamo che leggere faccia bene per molte ragioni, una tra queste è legata all’aumento di connessioni che la lettura genera.

 

Ma fino a che punto leggere un romanzo modifica le connessioni cerebrali?

Nel 2013 è stato condotto uno studio presso la Emory University in cui è stato chiesto ai partecipanti di leggere per 9 sere trenta pagine di un romanzo. Ogni mattina, a mente riposata, gli stessi soggetti venivano sottoposti a risonanza magnetica funzionale.

Cosa hanno rilevato gli studiosi?

Hanno riscontrato un aumento di connettività in due aree:

A livello del solco centrale del cervello (un’area che separa la corteccia motoria da quella sensitiva).
L’attivazione di quest’area si spiega come se la lettura fosse uno specchio in cui guardarsi. I movimenti realizzati dai personaggi dei libri attivavano nel cervello dei lettori le stesse aree che si sarebbero attivate se avessero svolto in prima persona quei movimenti. Quest’area del cervello è infatti importante nel rilevare le sensazioni corporee e negli aspetti connessi all’empatia.

A livello del lobo temporale sinistro (un’area associata al linguaggio).
La maggior connettività cerebrale riscontrata viene spiegata come un effetto della lettura della sera precedente. Tale effetto è stato definito dai ricercatori “effetto ombra”. L’impronta della lettura permane nel cervello fino a cinque giorni dopo che la lettura è finita, ma se il libro che abbiamo letto ci è piaciuto particolarmente può rimanere più a lungo.

Berns G., Blaine K., Prietula M., Pye B.E. (2013). Short- and Long-Term Effects of a Novel on Connectivity in the Brain. Brain ConnectivityVol. 3, No. 6

Social Network: quando la connessione diventa patologia

Social Network: quando la connessione diventa patologia

Social Network: quando la connessione diventa patologia

 

I Social Network sono piattaforme online sempre più utilizzate e in continua evoluzione. Ce ne sono più di 200, tra cui i più comuni sono Facebook, Instagram, Twitter e Linkedin. Le caratteristiche che fanno di un sito un Social Network sono la possibilità di costruire un profilo pubblico o semi-pubblico, di impostare una lista di utenti (detti amici, follower, contatti) con cui condividere i propri contenuti, monitorare le proprie connessioni con gli altri profili.

Quali differenze tra mondo online e mondo offline?

 

Che sia durante la frequentazione di un sito internet o di un bar o un parco, le relazioni sociali fanno intrinsecamente costitutive del modo di essere di qualsiasi individuo. Lo studio delle relazioni online potrà aprire nuove strade alla comprensione comprensione nell’ambito delle neuroscienze sociali, ma ad oggi gli ambienti sociali e virtuali rimangono ancora molto differenti tra di loro per i seguenti aspetti:

  • Adesione alle norme sociali: nel mondo virtuale viene spesso a mancare la reciprocità che contraddistingue gli scambi faccia a faccia. Per esempio la violazione delle norme di educazione si verifica più frequentemente rispetto al mondo offline.
  • Prossimità spaziale o sociale: i Social Network danno la possibilità di entrare in contatto con persone che non necessariamente sono vicini a livello spaziale (per esempio amici di altri paesi) e sociale (per esempio possibilità di connessione con personaggi pubblici, artisti, politici, ecc.)
  • Temporalità: la conversazione nel caso di commenti a post sui Social Network è caratterizzata dalla presenza di pause nei commenti, mentre lo scambio offline si caratterizza per la maggiore immediatezza. Inoltre, come dice il famoso detto Verba volant, scripta manent: ciò che viene scritto tra i commenti e nei post sui Social Network, a differenza di una conversazione a voce, è permenente e può essere reperito anche dopo molto tempo
  • Identità evidente vs nascosta: sui Social Network è possibile creare profili in cui la propria identità non è evidente, mentre nelle relazioni offline nella maggior parte dei casi sappiamo con precisione con chi ci stiamo rapportando.
  • Self-disclosure: sui Social Network è molto più probabile rivelare aspetti e temi privati, rispettoa quando ci si confronta direttamente con le persone (online 80% vs offline 30%)
  • Forma: lunghezza del messaggio e tipo di contenuto (scritti, video, fotografie, ecc.)

 

Perché si usano i Social Network?

 

 

Le due motivazioni principali che spingono le persone all’utilizzo di queste piattaforme sembrano essere la possibilità di connettersi agli altri e quella di gestire l’impressione che si fa sugli altri attraverso la pubblicazione di post, reazioni e commenti.

Anche dal mondo delle neuroscienze negli ultimi anni sono arrivate conferme in questo senso: i circuiti cerebrali coinvolti nell’utilizzo dei Social Media, infatti, sarebbero gli stessi che vengono attivati dalla cognizione sociale:

  1. Network della mentalizzazione, che coinvolge la corteccia prefrontale dorsomediale, la giunzione temporoparietale, il lobo temporale anteriore, il giro frontale inferiore e la corteccia cingolata posteriore
  2. Sistema autoreferenziale: corteccia prefrontale mediale e corteccia cingolata posteriore
  3. Network della ricompensa sociale: corteccia prefrontale ventromediale, striato ventrale e area tegmentale ventrale

 

 

Uso dei Social Network e implicazioni patologiche

 

 

Nonostante le molte differenze tra i due tipi di ambiente, sembrerebbero esistere delle continuità tra i comportamenti. Uno studio condotto dal National Centre on Addiction and Substance Abuse (2011) ha rilevato che gli adolescenti che spendono più tempo sui Social Network sono 5 volte più inclini a fumare, 3 volte più inclini a bere alcol e 2 volte più inclini a fumare cannabis.

Esistono 5 tipologie di dipendenze comportamentali legate al mondo del web:

  1. Computer Addiction (dipendenza dai giochi online)
  2. Information overload (dipendenza da web surfing)
  3. Cybersexual addiction (dipendenza da pornografia e sesso online)
  4. Net compulsions (dipendenza da gioco d’azzardo e shopping online)
  5. Cyber-relationship addiction (dipendenza dalle relazioni online)

La problematica psicologica che si lega all’uso dei Social Network è legata all’ultimo tipo di dipendenza, cioè quella che fa riferimento alle relazioni online. Ciò richiama il fatto che, nella dipendenza da Social Network, il comportamento da cui l’individuo è dipendente non è l’utilizzo in sé della piattaforma, ma la relazione con gli altri che si instaura attraverso il sito in questione.

La persona quindi, ha una estrema necessità di pubblicare e ricevere feedback al fine di costituire la propria stabilità personale, in quanto si riconosce a livello identitario solamente attraverso lo specchiarsi nello sguardo altrui, che è proprio costituito dalle azioni che seguono il proprio post.

Cambiamenti cerebrali e dipendenza da Social Network

Uno dei circuiti cerebrali maggiormente coinvolto nelle dipendenze è il sistema della gratificazione, che elabora i comportamenti adattivi diretti a uno scopo, attivati da eventi ambientali o da risposte corporee. Questo sistema è responsabile degli effetti positivi e piacevoli della gratificazione naturale e della piacevolezza delle sostanze e dei comportamenti di abuso/dipendenza.

Il sistema della ricompensa coinvolge:

  1. Nucleo Accumbens: elaborazione della ricompensa che motiva il comportamento, incluso il comportamento problematico
  2. Amigdala: collegamento dei segnali ambientali (uso Social Network) ai sistemi neurali del rinforzo negativo (il sollievo da una condizione di avversione come il ritiro), così come nella ricompensa positiva e nella ricompensa da aspettativa, come quelli mediati dal Nucleo Accumbens
  3. Corteccia Mediocingolata (regione dorsale della ACC): autocontrollo e processi inibitori in risposta all’impulso

La Social Network Addiction sembrerebbe comportare differenze strutturali in questo sistema, in particolare una diminuzione della sostanza grigia nell’amigdala (responsabile della sensibilizzazione del sistema della ricompensa e della “potatura” neuronale) a fronte di un aumento sostanza grigia nella corteccia mediocingolata e nella corteccia cingolata anteriore (che significa che il controllo inibitorio è preservato da decadimento). Non viene rilevata alcuna differenza nel nucleo accumbens.

I soggetti con dipendenza da internet sembrano avere una prestazione peggiore nei compiti che richiedono l’apporto della corteccia prefrontale e del ciontrollo esecutivo, e in particolare emergono deficit nel decision making: scelte più svantaggiose e rischiose anche dopo esplicitazione delle regole, minore flessibilità cognitiva e difficoltà di inibizione.

Inoltre, emerge una peggiore performance nei compiti di inibizione e di working memory rispetto ai controlli. Nel caso di stimoli il cui significato è legato a internet, però, i soggetti hanno mostrato una migliore performance di WM. In particolare, rispondevano velocemente alle parole il cui significato era legato a internet (stimolo saliente) ma avevano più difficoltà nell’inibizione della risposta.

 

 

Conclusioni

 

In definitiva, sembra ormai evidente che in correlazione alla dipendenza da Social Network avvengano cambiamenti strutturali e funzionali del cervello, in particolare nella corteccia prefrontale. È importante che tale problematica sia considerata una patologia a se stante, con differenze dalle altre forme di dipendenza.

 

 

Bibliografia

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La relazione : l’uomo è un animale sociale?

La relazione : l’uomo è un animale sociale?

La relazione. L’uomo è un animale sociale?

Già Aristotele nel IV secolo a.C. ha affermato la tendenza dell’essere umano alla socialità. Siamo per natura portati a stare in contatto con l’altro, che addirittura è parte essenziale del definirsi della nostra identità.

Questi ultimi due anni passati con le restrizioni da Covid-19 ci hanno permesso di comprendere quanto lo stare insieme agli altri sia un aspetto fondamentale della nostra vita.

In effetti, se in passato si credeva che il cervello fosse prevalentemente razionale e logico, da qualche anno a questa parte la ricerca nell’ambito delle neuroscienze e della psicologia ha confermato che l’essere umano è un animale sociale, e che il nostro comportamento e la nostra identità sono strettamente costruiti sul rapporto con l’altro. Addirittura, la la ricerca è arrivata alla conclusione che lo sviluppo cerebrale che ci ha trasformati da primati a uomini non sia solo la conseguenza del miglioramento dei processi di ragionamento, ma più che esso sia avvenuto seguendo il filo del gioco sociale: il nostro cervello è cresciuto sulla base della necessità di comprendere, interpretare e prevedere come si sarebbero comportati i nostri simili.

Uno degli aspetti più importanti della #socialità è quello di farci sentire l’appartenenza a un gruppo (per saperne di più sulle dinamiche di gruppo, ne abbiamo parlato qui). Un gruppo può essere definito come un insieme di persone che interagiscono tra loro con una certa regolarità. Le interazioni tra i componenti del gruppo si fondano su una serie di aspettative circa il comportamento dei membri, forme di comportamento che non si richiedono a chi non appartiene al gruppo in questione.

 

 

Il cervello sociale 

 

Quali sono le aree cerebrali che ci consentono di entrare in relazione con gli altri?

Come per tutte le abilità cognitive, è molto complicato stabilire quali aree specifiche del nostro cervello costituiscono il substrato neurale di una funzione. Ancora di più lo è per una capacità complessa come la socialità. Il cervello sociale si sovrappone per larga parte con il cervello emotivo, ed è molto difficile distinguere tali funzioni. Questo è un indice di quanto il nostro rapporto con l’altro sia mediato dalle emozioni.

Ecco alcuni dei protagonisti dell’elaborazione dei processi sociali:

  • Amigdala: strettamente connessa con la corteccia cerebrale, risponde alle espressioni emotive degli altri, siano esse positive o negative
  • Ipotalamo: si attiva quando gli altri ci respingono
  • Corteccia cingolata anteriore: rileva le situazioni rilevanti, per le quali c’è la necessità di agire, reagisce al dolore fisico, ma anche a quello sociale
  • Corteccia orbitofrontale e prefrontale ventromediale: racchiudono la personalità dell’individuo, e sono fondamentali per il ragionamento sociale
  • Nucleo accumbens: si attiva per la ricompensa, cioè per qualcosa che ci provoca piacere come carezze, baci, sorrisi, pacche amichevoli sulle spalle
  • Solco temporale superiore: identifica gli obiettivi altrui, prende in considerazione la prosepttiva degli altri, soprattutto attraverso lo sguardo
  • Insula: raccoglie le sensazioni viscerali, collegate ai nostri stati emotivi, comprsi quelli elicitati dall’altro

 

 

Quando inizia la relazione?

 

Nel passato si pensava che la capacità relazionale si sviluppasse nel bambino in seguito ad altre abilità più basilari. Anche le emozioni sociali, cioè quelle che dipendono dal rapporto con un’altra persona, si pensava emergessero in seguito alle emozioni di base.

Le evidenze scientifiche più recenti, però, ci hanno mostrato come l’intersoggettività sia una caratteristica intrinseca dell’essere umano, tanto che già nei feti gemelli se ne possono osservare le prove.

Fino a pochi anni fa, era diffusa la convinzione che i movimenti del feto fossero completamente casuali. Nel 2010, però, uno studio tutto italiano ha osservato i movimenti di feti gemelli nell’utero materno, facendo delle scoperte affascinanti e dimostrando che la predisposizione alla socializzazione emerge addirittura prima della nascita!

Già a partire dalla quattordicesima settimana di gestazione, infatti, è stato possibile osservare come i due gemelli mettessero in atto dei movimenti intenzionalmente rivolti verso il fratello, e come i gesti di esplorazione del corpo dell’altro fossero maggiori rispetto all’esplorazione del proprio corpo. Tali movimenti, inoltre, differiscono da quelli effettuati verso le pareti dell’utero.

 

Stare con l’altro nella post-modernità

 

L’epoca post-moderna ha visto il proliferare della tecnologia, tra cui una delle più importanti è sicuramente internet.

In questi giorni, quasi tutti noi stanno sperimentando in prima persona la facilità di connettersi con i propri amici e parenti tramite le varie chat e videochiamate, e questa soluzione ci sta salvando dall’isolamento che avremmo provato chiusi nelle nostre case.

Se noi adulti viviamo con stupore questo cambiamento nella nostra modalità di socializzazione, per gli adolescenti il modo di vivere le relazioni è intrinsecamente legato al mondo del web. L’uso di internet può rinforzare i legami individuali e favorire lo sviluppo di competenze sociali e professionali, anche se una minoranza di ragazzi potrebbero sviluppare disturbi legati proprio all’abuso di internet.

I Massively Multiplayer Online Role-Playing Games (MMORPGs) sono giochi online in cui gli individui sviluppano un personaggio, competono e interagiscono con altri giocatori senza limitazioni di spazio o tempo. Anche se questi giochi possono essere associati con la dipendenza da Internet, hanno anche delle caratteristiche positive, come quella di favorire il contatto sociale, che si va ad aggiungere alle relazioni faccia a faccia.

Il gruppo di gioco, spesso composto dagli amici della vita reale, che si crea in queste attività può essere un fattore che diminuisce la probabilità di sviluppare una Internet Addiction, se comparato con il comportamento del giocatore solitario. Il giocare insieme ai propri compagni di classe, infatti, potrebbe costituire un argomento di confronto e di gioco condiviso tra gli adolescenti, riducendo l’isolamento caratteristico delle Dipendenze da Internet.

 

 

 

L’isolamento sociale 

 

Il ritiro sociale o l’impossibilità di passare del tempo con le altre persone rappresentano una caratteristica di parecchi disturbi psichici, a dimostrazione del fatto che l’inter-relazione è una peculiarità dell’essere umano.

In particolare, molte evidenze scientifiche mostrano come l’isolamento sociale abbia ripercussioni negative per l’invecchiamento in salute. Le attività di socializzazione si pongono infatti come protettive rispetto allo sviluppo di patologie neurodegenerative, in quanto permettono da una parte di ricevere maggiori stimoli a livello cognitivo, dall’altra di mantenere un migliore tono dell’umore. La socialità, unitamente all’attività fisica e mentale adeguata, è quindi un fattore decisivo per l’invecchiamento attivo.

Uno studio pubblico nel 2019 e svolto nella regione Marche ha analizzato l’effetto del coinvolgimento di anziani sani in attività di “social farming” sulla salute generale. Le attività proposte sfruttano il lavoro con animali e piante tipico di una fattoria, al fine di veicolare servizi sociali ed educativi. Lo studio mostra come la partecipazione al programma di social farming abbia consentito ai partecipanti di aumentare il proprio network di contatti sociali, che spesso sono stati accresciuti e mantenuti anche al di fuori delle attività.

 

 

Questo breve excursus sulla socialità ci ha permesso di osservare come la relazione con l’altro sia fondamentale in tutte le tappe dello sviluppo umano, da prima della nascita fino all’anzianità. Ovviamente, l’intersoggettività è legata strettamente con il mondo emotivo, ma di questo aspetto ci occuperemo prossimamente in un altro articolo sul blog!

Spazio e tempo

Spazio e tempo

Spazio e tempo

L’orientamento nello spazio e nel tempo è una caratteristica presente fin dalle prime fasi dello sviluppo della vita sulla terra, quando gli organismi erano ancora cellule semplici. Il bisogno di muoversi svolse un ruolo fondamentale nello sviluppo del sistema nervoso, e inizialmente era rappresentato dalla necessità di cercare cibo e di sfuggire ai nemici. Il movimento ebbe l’effetto di collegare il cervello con l’ambiente, permettendo ad alcuni organismi di trasformare gli oggetti o di fare previsioni mentali che rafforzavano il loro comportamento.

 

Il senso del tempo nasce dall’orientarsi nello spazio

 

La capacità di orientarsi nello spazio costituisce il catalizzatore di alcune delle funzioni superiori del cervello umano: incontrare stimoli, metterli in relazione tra loro, imparare dalla propria esperienza, ricordarsene.

Man mano che la corteccia cerebrale si è evoluta, il concetto di spazio di viene sempre più astratto, superando la concezione di contenitore di stimoli, ed è a questo punto che l’abilità di individuare e ordinare sequenze sensoriale si integra con le percezioni associative, creando il senso del tempo.

Tempo e spazio, quindi, sono inestricabilmente connessi sia nel nostro cervello sia nella nostra esperienza quotidiana.

 

Il GPS neuronale: il cervello che elabora spazio e tempo

 

Lo spazio e il tempo sono due concetti legati in modo molto stretto tra di loro, tanto che secondo Alber Einstein essi sono indissolubili, un’unità relativa al movimento dell’osservatore.

L‘ippocampo e la corteccia entorinale sembrano essere le strutture chiave del GPS neurale, contenendo cellule in grado di rappresentare la posizione su una sorta di mappa cognitiva e cellule che rappresenta le distanze, la velocità, il tempo di un percorso. Il nostro GPS, quindi, organizza il flusso dell’esperienza , creando una rappresentazione spazio-temporale integrata.

Per poter rappresentare i diversi aspetti della realtà in maniera coerente il cervello deve integrare e associare gli eventi nell’ordine in cui accadono, unendo e generalizzando le esperienze, e questo accade grazie ai vari ritmi del cervello, che ci rendono anche in grado di effettuare previsioni.

 

L’orientamento nel tempo e nello spazio

 

Nel campo della neuropsicologia clinica, Il disorientamento è l’incapacità di collocarsi correttamente nel tempo e/o nello spazio e si manifesta come l’impossibilità di ricordare la data, il giorno della settimana, l’anno in cui si è, oppure come il perdersi su strade che si conoscono bene, o addirittura non riuscire a capire dove si è in casa propria. Questi sintomi sono frequenti quando una persona è affetta da demenza e portano con sé un’ingente dose di ansia e preoccupazione per l’anziano.

Secondo alcuni studi la capacità di orientarsi nel tempo e nello spazio non è associata solo alla memoria, ma anche al buon funzionamento di altre abilità cognitive come le capacità visuo-spaziali, il linguaggio e l’attenzione.

Il disorientamento, quindi, sembra essere il risultato del malfunzionamento di varie strutture cerebrali e delle funzioni cognitive ad esse associate.

 

 

Il tempo e lo sviluppo dell’identità

 

Secondo l’approccio fenomenologico, la nostra esperienza ha un carattere temporale e la capacità operare una configurazione narrativa, attraverso il linguaggio e il raccontare costituisce la base dell’identità.

Ma come si forma l’identità nei bambini?

Quando acquisiscono la capacità di trasporre la loro esperienza in un racconto?

Tra i tre e i quattro anni, i bimbi, con l’aiuto dei genitori che forniscono il senso a ogni esperienza, iniziano a strutturare i vari eventi della propria vita in piccole storie. Verso i 5 anni i bambini riescono a inventare un gioco con un personaggio, ad articolare le azioni in una storia che via via si sgancia dal contesto.

Nell’età scolare, il bambino ha acquisito l’abilità di comporre le varie dimensioni temporali in un’unica unità narrativa, e ciò comporta l’acquisizione del senso di permanenza di sé nel tempo, che gli indica di essere sempre lo stesso durante le varie esperienze che vive. Questo sviluppo è accompagnato dalla maturazione delle aree cerebrali che sono alla base sia del ricordo del passato, sia dell’immaginazione del futuro.

 

Mental Time Line: 

 

Il tempo è un concetto astratto di cui è estremamente difficile farsi una rappresentazione mentale. Secondo alcuni studi, la nostra mente rappresenta il tempo utilizzando uno schema spaziale, sotto forma di una Mental Time Line, ossia una vera e propria linea del tempo, in cui il passato è verso sinistra e il futuro a destra.

Esiste però una differenza tra la lontananza psicologica degli eventi della nostra vita: gli eventi futuri sono vissuti psicologicamente come più vicini al presente rispetto agli eventi passati, data una equivalente distanza oggettiva dal presente. Mettendo a confronto diverse fasce d’età, è però emerso come questa relazione sia opposta negli adolescenti: essi tendono a percepire gli eventi futuri più lontani nel tempo rispetto agli eventi passati.

Questo fenomeno potrebbe essere una conseguenza dell’identità ancora in formazione dei ragazzi, i cui progetti e obiettivi futuri sono ancora poco definiti. Inoltre, anche le emozioni che connotano gli eventi ne modificano la percezione di vicinanza rispetto al presente: eventi felici vengono rappresentati più lontani rispetto a eventi tristi o ansiosi.

 

Il tempo emotivo

 

Le emozioni alterano la percezione del tempo, fino al punto che il tempo sembra volare quando ci si sta divertendo e sembra allungarsi quando ci si annoia. Alcune ricerche hanno utilizzato materiale emozionale standardizzato, con l’obiettivo di comprendere meglio i meccanismi neurocognitivi che sottendono gli effetti delle emozioni sulla percezione del tempo.

La gioia e la felicità sembrano essere in grado di influenzare la percezione del tempo negli individui provocando cambiamenti nel livello di attivazione fisiologica, comportamentale ed emotiva. Alcune tra le più importanti ricerche in questo campo dimostrano che variazioni nel livello di dopamina nell’organismo sono in grado di influenzare la percezione del tempo nei soggetti sperimentali che si erano sottoposti alla somministrazione di particolari farmaci. La somministrazione di sostanze psicostimolanti che agiscono sul sistema dopaminergico è in grado di provocare una sovrastima della durata temporale delle esperienze vissute dall’individuo producendo un aumento del livello di arousal raggiunto. Questi studi confermano la possibilità che l’esperienza emotiva di emozioni positive come la gioia e la felicità possano influenzare in maniera significativa la percezione dell’esperienza temporale, sovrastimando o sottostimando la durata temporale di un evento.

 

 

 

L’amicizia. Come cambia nel corso della vita?

L’amicizia. Come cambia nel corso della vita?

L’amicizia. Come cambia nel corso della vita?

 

“Nessun uomo è un’isola”. Questo scriveva John Donne nel 1624 ed è una considerazione quanto mai attuale. Poter contare su contatti sociali significativi e durevoli fa avere fiducia negli altri e alimenta il livello di soddisfazione nei confronti della propria vita. Questo  quanto è emerso dal rapporto annuale dell’Istat 2018. Considerando nello specifico l’amicizia, secondo molti esperti la vera amicizia riguarda il “sentirsi supportati nello stesso modo in cui si desidererebbe”. 

Ma è così facile trovarla? 

Negli Stati Uniti ben 42,6 milioni di persone sopra i 45 anni non saprebbero a chi chiedere aiuto o con chi confidarsi; in Italia oltre il 13% dei cittadini soffre di solitudine. Per molte indagini la solitudine è un’epidemia pari all’obesità. Le amicizie dunque non sono un lusso ma una necessità!! Dopo la comparsa delle moderne tecnologie le tipologie di relazioni sociali sono numerose e diverse tra loro ma il valore della socialità rimane prioritario. Che si tratti di interazioni reali o virtuali, il desiderio di socialità non rappresenta, come detto, solo una tendenza connaturata nell’uomo ma anche un incentivo ad avere maggiore fiducia nei confronti degli altri e della società. 

Nel cervello dei nostri amici

 

Uno studio del Dartmouth College ha messo in evidenza come il cervello di amici elabori la realtà in modo molto simile.  Per affermare questo gli studiosi hanno condotto uno studio in cui hanno sottoposto a 279 studenti universitari un questionario sulle loro abitudini di vita e di indicare quali fra gli altri studenti arruolati nella ricerca considerassero amici. Sulla base delle risposte hanno successivamente tracciato una mappa dei rapporti sociali fra gli studenti. Hanno poi mostrato a un sottogruppo di studenti una serie di brevi filmati – fra cui scene di vita reale, commedie, documentari e dibattiti – mentre ne monitoravano l’attività cerebrale con risonanza magnetica funzionale.

Gli scienziati hanno scoperto che il cervello degli amici risponde in modo molto simile. Regioni di concordanza sono state riscontrate nel nucleo accumbens, nel proencefalo inferiore, che gioca un ruolo importante nei meccanismi di rinforzo, dipendenza, piacere e paura, e nel lobo parietale superiore, dove il cervello decide come dare attenzione all’ambiente esterno. 

La somiglianza tra le risposte neuronali può essere utilizzata dunque per prevedere sia il rapporto affettivo che la distanza sociale tra due individui! Prossima sfida per i ricercatori sarà quella di comprendere se veniamo attratti naturalmente dalle persone che vedono il mondo alla nostra stessa maniera, se diveniamo più simili una volta che condividiamo le stesse esperienze, o se entrambe le dinamiche si rafforzano a vicenda.

Che funzioni ha l’amicizia tra bambini?

 

La Walt Disney Company ha condotto un sondaggio per celebrare le classiche storie sull’amicizia di Winnie the Pooh, rilevando che il 43% degli italiani intervistati ha incontrato il proprio miglior amico proprio negli anni dell’infanzia : il 76% prima degli otto anni e il 22% a sei anni. In realtà l’amicizia compare in tenerissima età. Addirittura già a 8-10 mesi i bambini instaurano rapporti preferenziali con alcuni coetanei. 

Ma per un bambino in età scolare chi è un amico?

  • è chi ti vuole bene;
  • è quella persona con cui poter giocare;
  • è una persona che sposeresti;
  • è quell’individuo a cui piacciono le stesse cose che piacciono a te.

Crescendo i sentimenti si affinano e quando l’amico non c’è si inizia a sentirne la mancanza o si prova gelosia se lo si vede giocare con un altro. Attraverso l’amicizia i bambini iniziano a “comprendere la mente“, de-centrandosi dal loro egocentrismo fisiologico, iniziando a sviluppare quella che in futuro sarà l’empatia. L’amicizia tra bambini dunque è fondamentale. Essa si basa su interazioni reciproche e orizzontali in cui vengono apprese abilità di cooperazione e competizione; si può parlare quindi di una vera palestra delle relazioni sociali. 

Chi è il “Migliore amico” per un adolescente?

 

L’amicizia tra adolescenti è quel tipo di interazione caratterizzata da sentimenti di simpatia, fiducia, solidarietà, confidenza e reciprocità nel prestarsi aiuto. Da giovanissimi tutti abbiamo avuto un “amico del cuore“, un compagno inseparabile con cui abbiamo condiviso confidenze e importanti esperienze.

Ma chi era il nostro migliore Amico?

  • Era quella persona a cui rivelavamo qualunque tipo di esperienza, dalle bugie ai litigi con i genitori. Era il nostro confidente e noi il suo; 
  • Era quella persona di cui ci potevamo fidare ciecamente; non avrebbe mai svelato a nessuno le nostre confidenze; 
  • Eri il nostro unico amico del cuore; il nostro migliore amico non aveva altri legami di amicizia così stretti; 
  • Era quella persona che ci capiva al volo, sentendo ciò che provavamo, condividendo insieme a noi problemi, sentimenti, emozioni.

Ecco perché  durante l’adolescenza l’amicizia assume tanta importanza:

  • Gli adolescenti si rifugiano negli amici perché in famiglia non si sentono compresi e appoggiati appieno;  l’amicizia in questo periodo assolve delle funzioni che la famiglia non riesce più ad assolvere;
  • Attraverso le amicizie gli adolescenti imparano che nelle relazioni è necessario rispettare delle regole; come ad esempio quella della fiducia, della solidarietà e del sostegno reciproco;
  • Per amicizia non si intende solo quella esclusiva tra due persone,ma anche quella di gruppo. L’appartenenza ad un gruppo crea nell’adolescente un buon senso di sicurezza e fa abbassare gli stati di ansia.
  • Avere dunque delle buone amicizie durante l’adolescenza è importante per sapere che cosa aspettarsi dagli altri, in vista di un buon futuro adattamento nella società. 

E che ruolo ha l’amicizia negli anziani? Quanti amici abbiamo nel corso della nostra vita? 

 

Una ricerca inglese di qualche anno fa, su un campione di 10.000 interviste, ha stimato una media di 400 amici. Questo numero va però diluito lungo il corso della nostra esistenza. Frequentiamo infatti non più di 30 persone alla volta. 

Uno studio della  University State of Michigan afferma come l’amicizia possa rappresentare un’importante fonte di felicità e di benessere per gli anziani. Talvolta coltivare le relazioni di amicizia può procurare addirittura un benessere superiore rispetto a quello fornito dalla famiglia che, quando l’individuo è anziano, può purtroppo essere assente oppure essere talvolta foriera di stress. 

Ma quali sono i due rimedi per vivere in modo sano e attivo la terza età?

  • Avere delle buone amicizie: una ricerca condotta su 7000 anziani negli stati uniti rileva come sia importante per la salute avere relazioni di qualità. Infatti quanti percepiscono gli amici come fonte di stress riferiscono un maggior numero di patologie croniche;
  • Avere una vita sociale: è molto importante coltivare relazioni amicali. Con il termine social engagement ci si riferisce proprio ad una modalità di occupazione per gli over 65 in cui viene dedicato del tempo agli impegni nel sociale o alle attività ludiche (come andare al cinema o a teatro).  Questi comportamenti hanno delle ripercussioni estremamente importanti sulla salute dell’anziano tanto da ridurre il il rischio di sviluppare un disturbo depressivo! 

Internet è una minaccia o una risorsa per l’amicizia nell’era dei social? 

 

In tanti tra poeti, filosofi e scrittori hanno cercato di dare una definizione dell’amicizia, ma non vi sono riusciti in quanto nessuna amicizia è uguale a un’altra anche se tutte hanno in comune un aspetto fondamentale: ‘il legame‘, ovvero, quel sentimento di vicinanza e di comunione che tiene legati due individui.

Prima dell’avvento di Internet ci si conosceva incontrandosi in luoghi di aggregazione reali; oggi invece si può assistere alla nascita di nuovi rapporti anche su “piazze virtuali”. Internet è nato con l’intento di azzerare le distanze tra le persone; in un sogno visionario in cui tutti potessimo essere interconnessi. 

Ma che impatto hanno avuto i social network sui nostri rapporti di amicizia? Possiamo rilevare sia criticità che punti di forza. Pensando alle criticità possiamo considerare: 

  • il rischio di isolamento: internet invece che unire potrebbe in alcuni casi sortire l’effetto contrario.Vi è mai capitato di andare ad una festa e di vedere diverse persone chine sul proprio cellulare? Questo è il fenomeno del Phubbing, ovvero quando in un contesto sociale si è concentrati sul proprio smartphone e non si considera il mondo circostante;
  • il rischio della menzogna: nella realtà virtuale è più facile mentire, camuffare il proprio stato emotivo e condividere un’immagine di sé poco veritiera;
  • il rischio di una comunicazione fallace: sui social manca il canale della comunicazione non verbale mediata dal corpo e questo non ci permette di cogliere le sfumature emotive fondamentali all’interno di una relazione.

Ma ora invece veniamo agli aspetti positivi:

  • Internet permette di mettere in contatto quelle persone che hanno difficoltà relazionali offrendo loro la possibilità di creare nuove relazioni;
  • Internet, riducendo le distanze, è un prolungamento delle relazioni reali permettendo alle persone di mantenersi in contatto più facilmente;
  • Internet, per mezzo dei social, unisce le persone che hanno interessi simili, dando loro la possibilità di trovare nuovi potenziali amici.  
Alla scoperta del DOC: il Disturbo Ossessivo Compulsivo

Alla scoperta del DOC: il Disturbo Ossessivo Compulsivo

Alla scoperta del DOC: il Disturbo Ossessivo Compulsivo

Fino alla pubblicazione della quinta edizione del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-5) il disturbo ossessivo-compulsivo (DOC) era inserito tra i disturbi d’ansia; oggi si è guadagnato, insieme ad altri disturbi ad esso correlati, un capitolo a sè diventando un’entità nosografica autonoma.

Nello stesso capitolo del DOC, quindi, troviamo:

  •  il disturbo di dismorfismo corporeo
  •  il disturbo da accumulo
  •  la tricotillomania (disturbo da strappamento di peli)
  •  il disturbo da escoriazione (stuzzicamento della pelle)

La scelta di riunire sotto lo stesso ombrello questi disturbi riflette le numerose evidenze scientifiche che sottolineano la stretta interconnessione tra questi disturbi e l’utilità clinica di raggrupparli nel supporto alla diagnosi.

Ma cos’è esattamente il DOC?

I suoi sintomi caratteristici sono la presenza di #ossessioni e/o #compulsioni.

Le ossessioni sono pensieri, immagini o impulsi ripetitivi, persistenti e intrusivi vissute in modo spiacevole poichè causano ansia nella maggior parte delle persone.

Le compulsioni sono comportamenti ripetitivi o azioni mentali che le persone si sentono obbligate a compiere in risposta a un’ossessione o a regole che devono essere rigidamente applicate.

Il contenuto specifico di ossessioni e compulsioni varia tra gli individui, ma ci sono temi comuni ai pazienti come quello della pulizia (ossessioni di contaminazione-compulsioni di pulizia), della simmetria (ossessioni di simmetria-compulsioni di ordine/ripetizione/conteggio), dei tabù (ossessioni aggressive, sessuali o religiose con conseguenti compulsioni) e di danno (timore di danneggiare se stessi o gli altri-compulsioni di controllo). Questi temi sono sono comuni anche in culture diverse e possono essere associati a differenti substrati neurali.

Il DOC nei bambini 

Il DOC non è prerogativa degli adulti ma può essere osservato anche nei bambini con età di esordio tra i 9 e gli 11 anni.

Come gli adulti, anche i bambini presentano ossessioni e compulsioni; le più comuni sono le ossessioni di contaminazione da germi o sporcizia, di ordine e simmetria e di tipo aggressivo legate alla paura di poter danneggiare se stessi o gli altri.

A differenza degli adulti, però, non sempre i bambini sono in grado di riconoscere che le loro ossessioni e compulsioni sono irragionevoli ed eccessive così come non è detto che siano in grado di verbalizzare le loro ossessioni che andranno dedotte a partire dalle compulsioni messe in atto. 

E’ importante sottolineare, però, che la maggior parte dei bambini attraversa periodi di sviluppo caratterizzati dalla normale presenza di lievi comportamenti compulsivi e ritualistici. Non bisogna allarmarsi, quindi, se a 7 anni i bambini si dedicano con una certa insistenza alla collezione di figurine o se dei comportamenti non conformi alle regole dei giochi scatena crisi di pianti e grida.

Piccoli rituali o la superstizione aiutano i bambini a controllare il loro ambiente e a gestire ansie e paure e tendono a scomparire da soli con la crescita.

Al contrario, i rituali dei bambini con DOC persistono nel tempo e sono invalidanti, provocano sofferenza nei bambini che se ne vergognano e tendono a isolarsi.

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